Tutte le famiglie hanno una loro mitologia, e tutte le mitologie pretendono i loro riti.
Nella mia, il lunedì sera era consacrato all’Ispettore Derrick.
Paradossale: trovare una dolce madeleine proustiana nel grigio funzionario della polizia criminale di Monaco di Baviera e nello svolazzante ciuffo anni ’70 di Harry Klein.
Funzionava così: finivamo di cenare in cucina, con mio padre che mangiava un mandarino e si incantava davanti agli effluvi d’agrumi della buccia del frutto, cui era uso dar fuoco nel piatto, mentre si accendeva una dannatissima Muratti. Mia mamma sparecchiava talmente in fretta che se non stavi attento ti toglieva l’ultimo boccone da sotto al naso.
Il televisore giallo Rex gracchiava la musica dell’Almanacco del giorno dopo e le previsioni del tempo con Bernacca o Baroni. Quella volta non c’erano gli open space: il nostro enorme appartamento aveva la cucina a un chilometro dalla sala da pranzo e per me era il momento della libertà, come di un bambino che si libera della mano materna e cammina in bilico sul muretto. Mentre i miei si attardavano in cucina a commentare il telegiornale con Frajese, io me ne sgattaiolavo in sala e avevo libero accesso alla cabina di comando – un vetusto Magnadyne dai colori incredibilmente vividi – per una mezz’ora.
Poi – alle otto e mezza su Raidue – spietata, partiva la sigla dell’Ispettore Derrick. Un violento riff su cui, in modo straniante, si innestava una specie di carillon dolcissimo. Era la colonna sonora simbolicamente più adatta a quei telefilm, tanto pacati e grigi nei protagonisti e tanto sordidi e violenti nelle trame.
I miei si accomodavano, mia mamma sul divano, mio padre in poltrona. L’ultimo rito era il dolcetto, consumato rigorosamente in salotto. Ripensare ai biscotti di quel tempo è una dolce stilettata: gli strudel Pavesi, i plin plin – sorta di piccoli plumcake che rimanevano puntualmente piantati lungo l’esofago – i primi Grisbì, i Baiocchi e i Ciocchini, i Togo e i Tresor.
Gli episodi di Derrick avevano conosciuto una lenta parabola di trasformazione, in anni di produzione. I primi, con tutti i cliché anni ’70, si muovevano quasi ai confini del poliziesco d’azione; Derrick e Klein erano a volte impegnati in sparatorie e scazzottate inusitate, credibili quanto l’ennesima versione di zio Michele da Avetrana. Klein portava improbabili camicie dai colli geometrici ed enormi, pantaloni a zampa d’elefante color ruggine come la zazzera da tedesco in vacanza a Montesilvano; Derrick era sempre impeccabile, col suo toupet e completi su tutti i toni del grigio, con qualche puntata sul verdolino. Gli intrecci avevano un realismo, una precisione e un approfondimento psicologico scientifici. Che differenza dai buchi di sceneggiatura e dagli improbabili detective americani.
Mano a mano la serie aveva preso una deriva filosofica; l’assassino, negli anni ’70 quasi sempre un disadattato, un maniaco, un borghese che ammazzava la moglie sullo sfondo di spacciatori, papponi e prostitute, era ora immancabilmente un filosofo. Nel lusso di Bmw sempre più grosse, Rolex e ristoranti gourmet, l’omicida hegeliano invitava l’ispettore a cena, per una teatrale confessione. Derrick appariva titubante, quasi simpatizzava con le motivazioni cerebrali del delinquente.
La mia mente di ragazzino fissò all’epoca dettagli che ancora oggi mi inseguono indomabili. La pellicola che, dio sa perché, tendeva a diventare molto più scura quando si approssimava l’ultima scena; Derrick che, spietato e forse compiaciuto, annunciava il ritrovamento del cadavere morto ammazzato ai familiari disperati. Le lunghe giacche nere di pelle per cui mio padre faceva sempre la stessa battuta: “Sembra un ufficiale delle SS!”
Anni dopo si scoprì – con grande scandalo – che non ci era andato lontano: davvero Horst Tappert, in una lontana e oscura gioventù, aveva fatto parte della peggior pagina di storia, dalla parte sbagliata. E allora la damnatio memoriae si è abbattuta sul grigio ispettore.
Mai più una replica, qualche episodio su YouTube, ma la magia si è rotta.
Cercare Derrick sul tubo non è la stessa cosa che vederselo improvvisamente davanti, in un idilliaco lunedì da ragazzino, di quelli che non pensi che a un certo punto rimpiangerai. O in un’improvvida replica su qualche assurdo canale, quando ritrovarsi al cospetto del grigio funzionario, dell’improbabile Klein e di squallidi omicidi di periferia mi regalava un squarcio di fulminante, inaspettata gioia corsara.
Trovi altri racconti qui e sulla mia pagina Facebook Andrea La Rovere Works.