Molti mi invidiavano, ma che ne sapevano?
Quelli erano convinti che 90 minuti di partita, ogni maledetta domenica, fossero l’unico impegno: “Di che ti lamenti? Alla fine, devi solo giocare a pallone una volta alla settimana… Noi il campo ce lo dobbiamo pure pagare!”
Che ne sapevano, quelli, del resto della settimana?
C’erano gli allenamenti, durissimi.
C’era il mister, che se non ti impegnavi a dovere ti prendeva a parolacce.
C’erano i compagni: bisognava fare l’amico di tutti, ma il posto in campo te lo dovevi comunque guadagnare.
La famiglia a casa, poi: quelli contavano su di te.
Solo un gioco: vaglielo a dire al presidente della società!
La settimana prima della partita, tra pressioni da ogni parte, allenamenti, studio della squadra avversaria e tutti gli altri impegni – perché devi comunque pure vivere – era un vero e proprio calvario.
Alla domenica si arrivava sempre col fiato corto, le ossa spezzate e i muscoli che già dolevano. Era la dura legge del calcio, quello vero.
Domenica
La domenica inizia quasi sabato sera: a letto alle nove, svaghi, manco a pensarci.
Sveglia prestissimo: colazione doppia, barrette proteiche.
La preparazione della divisa da gara è un rito.
Allo stadio mi ci portano con la macchina, poi gli spogliatoi e le raccomandazioni del mister: “Gioco pulito e vinca il migliore!”
Sì, un paio di palle.
Le raccomandazioni sono: per i difensori di falciare più gambe possibili, facendo male e stando lontani dai cartellini rossi; per gli attaccanti: correre fino a quando il cuore scoppia e buttarsi giù piangendo e strillando se solo qualcuno ci passa vicino.
Non siamo qui per giocare, siamo qui per vincere.
A qualunque costo.
Entro in campo e si comincia, l’adrenalina sembra quasi farmi volare.
Guardo gli spalti e li vedo.
Mio padre, occhiali da sole e braccia incrociate, non mi perde di vista un attimo: l’espressione dura di chi non perdona il minimo errore.
La mamma sta da una parte, con le altre mamme, perché il calcio è roba da maschi: fanno finta di chiacchierare ma si lanciano frecciate intrise di un odio senza nome.
Il mister continua a strillare che dobbiamo distruggere gli avversari.
La terra battuta del campetto di periferia mi corre davanti agli occhi, veloce.
Parte un lancio lungo: non ne ho voglia, ma devo correre più veloce di una scheggia.
Non posso fallire.
Mi chiamo Davide, ho sette anni e sono già stanco di giocare.
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