Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Grande Slam, le storie di chi non ce l’ha fatta

Grande Slam, le storie di chi non ce l’ha fatta

Il Grande Slam, il traguardo più ambito del tennis. Quello più difficile. Nella lunghissima storia del tennis sono pochissimi i nomi di chi ce l’ha fatta; Donald Budge e Rod Laver nel tennis maschile, Steffi Graf, Maureen Connolly e Margaret Court tra le donne. Ma il Grande Slam annovera anche le storie epiche di chi ha fallito a un passo dal traguardo.

In tutti gli sport ci sono imprese che sembrano stregate e record che paiono fatti per non essere battuti. In Formula 1 il baluardo che pareva a tutti insuperabile erano i cinque titoli mondiali di Juan Manuel Fangio, per dire. Un record che venne battuto solo nel 2003 da Michael Schumacher, non tanto grazie alle sue mostruose abilità fuori e dentro l’abitacolo, quanto alla differenza di longevità delle carriere.

Viene in mente quello che – a proposito dei cinque titoli di Fangio – ebbe a dire lo storico rivale Stirling Moss, il Re senza corona; “Se anche vincessi un titolo più di Fangio, ciò farebbe di me un pilota migliore di lui?”
Il ragionamento si può applicare a tutti gli sport e a tutti i primati; spesso i numeri non sono in grado di definire la leggenda di uno sportivo, soprattutto mentre è ancora in attività.
Nel tennis il primato che appare più stregato di tutti ha un nome: Grande Slam.

Il Grande Slam consiste nel vincere consecutivamente nello stesso anno solare i quattro tornei più importanti della stagione tennistica.

Gli Australian Open che si giocano sul cemento di Melbourne; il Roland Garros, da sempre ospitato da Parigi e dai suoi campi in terra rossa; Wimbledon, sull’erba di Londra e forse appuntamento più prestigioso in assoluto; gli US Open, che si svolgono ora sul cemento newyorchese.

Quattro tornei in un anno, sembrerebbe cosa da poco per campioni come quelli attuali; quelli abituati a roboanti vittorie e compensi che farebbero impallidire Paperon De’ Paperoni.
La classe e l’eleganza di Roger Federer, lo svizzero che pare nato per insegnare il tennis perfetto; la generosità e l’esuberanza fisica di Rafa Nadal, lo spagnolo tutto muscoli e agonismo; la ferrea disciplina di Novak Djokovic, il serbo, meno considerato dei due ma egualmente micidiale. Le loro doti non sono bastate nemmeno per avvicinarsi all’ambito traguardo.

Il termine Grande Slam fu inventato dal giornalista del New York Times Jon Kirian che lo mutuò dal massimo punteggio possibile del bridge. L’ultimo caso risale all’ormai lontano 1988; quella volta fu Steffi Graf, la macchina da guerra tedesca, tanto fredda sul campo quanto fragile fuori, a ottenerlo appena diciannovenne, dall’alto di un dominio forse irripetibile. Di più, nella storia sono stati di più i giocatori che lo hanno ottenuto di quelli che sono arrivati a sfiorare l’impresa.

A entrare in questo particolare e ristretto olimpo sono stati infatti in cinque.

Donald Budge nel 1938 – il primo – col suo rovescio di potenza inusitata; Rod Laver nel 1962 e nel 1969, probabilmente il più forte tennista di tutti i tempi; Rod fu penalizzato dalla confusione tra professionismo e dilettantismo della sua epoca; Maureen Connolly nel 1953, prima tra le donne; Margaret Court nel 1970, tennista fortissima all’epoca e discussa oggi per le sue prese di posizione ultra conservatrici e per l’appunto la stella Graf.

Solo quattro sono invece i tennisti arrivati a un passo dalla meta, che in vista dell’agognato striscione del traguardo sono franati. Chi per un crollo psicologico, chi tradito dall’amico che aveva sempre battuto; chi perché volle improvvidamente curare l’allergia col bourbon. Le loro storie sono tutte particolari, e sono quelle che vi raccontiamo oggi.

1933, Jack Crawford

Jack Crawford era un vero gentleman, in un’epoca in cui il tennis era ancora un affare tra gentleman. Era nato nel 1908 a Urangeline, un paesotto del New South Wales, in Australia. Ai tempi non si sapeva ancora bene cosa fosse, sospesa tra il passato di colonia penale inglese e un presente con l’ambigua dicitura di Australasia. Urangeline rappresenta ancora oggi l’Australia più selvaggia, quella di Mr. Crocodile Dundee, quasi. Provarono ad aprirci un ufficio postale, nel 1882; troppo progresso, chiuse nel 1934 per non riaprire mai più.

Eppure il giovane Jack, fisico non proprio attraente da un metro e ottanta e orecchie a sventola da far allargare le porte di casa, i modi da gentleman inglese li aveva davvero.
L’abbigliamento, per cominciare.
Giocava con pesanti camicie di flanella, perfettamente abbottonate; il grado di impegno a cui lo sottoponevano gli avversari veniva giudicato da quanti bottoni si slacciasse durante il match.
Ma il pezzo forte del repertorio era il tè; alla poltroncina del cambio di campo, il buon Jack teneva una teiera e di tanto in tanto sorseggiava la bevanda calda, allungandola con dell’acqua o – più di rado – col latte, che si faceva portare dai raccattapalle.

Il suo gioco era moderno ed essenziale, nonostante il servizio fosse il punto debole; la causa era una seconda palla inefficace e il vizietto di incorrere in numerosi doppi falli. Ciò non gli impedì, in quel 1933 stregato, di mettere in fila tutti gli avversari e i primi tre tornei dello slam.
Arrivò a New York per l’ultimo tassello dell’impresa e subito fu colto da una delle inusitate allergie che lo perseguitavano.

Riuscì comunque in discreta scioltezza a issarsi fino alla tappa conclusiva del torneo; lo attendeva un altro gentleman, quel Fred Perry che avrebbe avuto fortuna anche nell’abbigliamento.
Come detto, fu Jon Kieran a dare un nome a quell’impresa che lo attendeva, e che mai era stata avvicinata fino a quell’anno: Grande Slam.
E fu invece l’amico Vinnie Richards, oro olimpico nel 1924, a dargli il consiglio che lo avrebbe perduto. Del bourbon, secondo Vinnie, sarebbe stato l’ideale per dilatare i vasi sanguigni e favorire il decorso della poderosa allergia.

Detto fatto, Jack eseguì allungando il tè a piccole dosi e al quarto set, quando vinceva 2 a 1, iniziò ad accusare degli strani sintomi. Quelli della sbronza.

Credendo i sintomi dovuti a una recrudescenza dell’allergia, Crawford ingerì dei medicinali, sempre mandandoli giù col suo tè corretto. L’improvvida azione sortì l’effetto di ridurlo a uno zombie che vagava per il campo. Negli ultimi due set raccolse un solo game e fu condotto a braccia alla premiazione.
Il sogno di essere il primo a coronare il Grande Slam finì coi postumi della più classica delle sbornie.

1956, Lew Hoad

Poco tempo fa John Newcombe, campione australiano a cavallo degli anni ’60 e ’70, alla fantasiosa domanda su chi fosse il più grande di tutti i tempi, annoiato dai soliti nomi di Federer, Nadal e Djokovic, stupì tutti uscendosene con un “…e se il più grande fosse stato Lew Hoad?”.

Lew Hoad è uno dei grandi dimenticati del tennis; forse la sua carriera fu troppo breve per segnare record epocali, eppure garantiscono i testimoni dell’epoca che quando Hoad era in giornata, non ci fosse nessuno in grado di giocare meglio, compresi Laver e Rosewall, i campionissimi coevi. Il 1956 fu il suo anno; dopo essersi messo in tasca in scioltezza i primi tre slam, arrivò a New York con gli occhi puntati addosso e i favori del pronostico. Sarebbe stato lui il secondo a vincere il Grande Slam dopo Budge nel ’38?
Hoad era bello come un divo di Hollywood e il suo gioco era uno spettacolare serve & volley. Il gioco tipico della veloce erba australiana.

“Non ne avevo parlato con nessuno fino a New York – racconterà a proposito dell’impresa – non avevo nemmeno idea di cosa fosse” – a testimonianza che spesso i grandi record ossessionano più i fanatici che i giocatori.

E l’impresa gli riesce fino al primo set della finale contro quello che veniva chiamato il suo gemello, Ken Rosewall. I due sono chiamati anche Whidz Kids, apprendisti stregoni; sono nati a soli ventun giorni di distanza e si affrontano da quando avevano 12 anni. Quell’anno Hoad ha sconfitto Ken sia nella finale australiana che in quella di Wimbledon, eppure a New York qualcosa si inceppa; sarà la tensione, sarà la giornata di grazia del bravo Ken, eppure – dopo aver dominato il primo set – il gioco di Lew si appanna e il campione si affloscia. Perde i tre set successivi e addio Grande Slam.

1984, Martina Navratilova

Il 1984 è un anno speciale, in tutti i sensi. Il Grande Slam ha un altro aspetto, infatti gli Open d’Australia si giocano in autunno, anziché all’inizio dell’anno come da tradizione.

Martina vive l’ennesimo anno del suo infinito duello con Chris Evert, mentre la loro nemesi, con le fattezze di Steffi Graf, è una timida quindicenne che si affaccia appena sul circuito.
Non potrebbero essere più diverse, Martina e Chris; votata all’attacco la prima, sul campo e nella vita, ostenta un serve & volley degno dei colleghi maschi quando gioca, e la propria omosessualità quando torna alla vita di tutti i giorni. La Evert è l’opposto, gioca in difesa prediligendo la terra rossa e sfoggia anche in campo tutta la sua aggraziata femminilità. Il gioiello Tennis, per dire, prende il nome da quella volta in cui Chris lo perse durante uno scambio e fece fermare il gioco per recuperarlo.

La loro rivalità è leggendaria; alla fine Martina prevale leggermente negli scontri diretti, ma la parità è sostanziale.
Non nel 1984, però. Quell’anno Martina è un rullo compressore, tanto da fare a brandelli Chris anche sull’amata terra di mattone del Roland Garros.
Anche in Australia il destino pare già scritto, a dividere le due dalla quarta finale slam di stagione c’è solo la semifinale contro la giovanissima e allampanata Helena Sukova.

Martina l’ha già affrontata e schiantata agli US Open, si tratta di una formalità prima del grande scontro. Il primo set si chiude 6-1 per la Navratilova; quando i giornalisti stanno già mandando in redazione i propri pezzi, la maledizione del Grande Slam si abbatte su Martina con la violenza di un fortunale. La ragazza, che appare tanto dura e mascolina, in realtà nasconde un lato emotivo che solo ogni tanto fa cucù. Martina perde la bussola, i due set successivi, il match e la possibilità di entrare nella leggenda.

Sukova è una tennista di talento, per carità, ma basta vedere ciò che succede il giorno dopo; Helena torna nei ranghi e viene dominata da Evert, per capire che quel giorno il braccio di Martina ha tremato. In carriera Navratilova e Sukova si incontreranno 32 volte e Martina vincerà in 26 occasioni. Non quel giorno a Melbourne, però.

2015, Serena Williams

L’ultimo assalto al Grande Slam è avvenuto nel 2015, per mano di Serena Williams.
Serena è la figlia ideale dei tempi e una figura che sembra studiata per sfondare a livello di marketing. Assieme alla sorella Venus – anche lei campionessa di grande livello – ha scalato le vette del tennis contro tutto e contro tutti; partite dal ghetto di Compton, Los Angeles, allevate come macchine da gioco dal classico padre padrone, le due sorelle hanno sconfitto giudizi e pregiudizi. Sono diventate, Serena in particolare, figure di riferimento non solo nel loro sport ma soprattutto per le donne.

Il Grande Slam, il traguardo più ambito e irraggiungibile, in quel 2015 sembra a portata di mano per la tosta Serena. I primi tre slam erano stati archiviati sul velluto schiantando la Sharapova – la vittima preferita di Serena, opposta a lei in tutto – a Melbourne; la sorprendente Safarova a Parigi – unica finalista a sfilarle un set – e la Muguruza a Wimbledon.
Dopo Londra Serena intima a tutti di non provare nemmeno a nominare le due parole magiche, dando così mostra che al Grande Slam ci tiene fin troppo; tuttavia far finta che un problema non esista non è mai servito a farlo sparire.

L’avventura di Williams a New York finisce per ricalcare quella australiana di Navratilova di trentun anni prima.

Serena va in scioltezza fino alla semifinale, dove si è aperto un buco nel tabellone che ha inghiottito tutte le avversarie più quotate. La ragazzona di Los Angeles arriva al penultimo ostacolo forse fin troppo sicura.
Sa che in finale troverà Flavia Pennetta, meno pericolosa delle sue avversarie di più alto rango; deve solo archiviare la pratica Roberta Vinci. Roberta è una tennista quasi a fine carriera che mai si era arrampicata così in alto; nei quattro precedenti ha raccolto al massimo sette game.

Vinci è giocatrice d’altri tempi; fosse nata trenta o quaranta anni prima probabilmente avrebbe fatto incetta di slam, col suo gioco fatto di ricami a rete e di delicati intarsi da fondocampo. Comprensibilmente appagata da una semifinale slam, imprevista e imprevedibile, sembra l’ideale vittima sacrificale per Serena. E così è per il primo set, che l’americana sveltamente incamera per 6-2.

Ed è a quel punto che Serena va in tilt. Si fa incastrare dalla ragnatela della talentuosa tarantina, che quel giorno pare posseduta, e smarrisce il bandolo della matassa.
Senza nulla togliere alla brava Roberta, a sconfiggere Williams è più il fantasma del Grande Slam che sembra paralizzare le sue facoltà mentali e appesantirne il gesto tecnico.

Da allora nessuno è più riuscito ad avvicinare nemmeno l’idea dell’impresa.
E lassù, nell’olimpo dei pochi eletti, Don Budge, Rod Laver, Maureen Connolly, Margaret Court e Steffi Graf possono dormire sonni tranquilli.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su Auralcrave. La trovate qui.

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