“McEnroe ha più talento ma giocare con Borg è come farsi prendere a martellate. E se Borg è un martello pneumatico, McEnroe invece è una lama affilata: un taglio qui, un taglio là e all’improvviso sei ricoperto di sangue. Anche se le ferite non sono tanto profonde, alla fine… muori dissanguato”.
Le parole a cui è affidato l’inizio di questa storia sono state pronunciate da Arthur Ashe; il grande campione americano è forse l’ultimo anello di congiunzione tra il tennis dei dilettanti – giocato con spirito cavalleresco per cent’anni – e quello dei professionisti, oggi imperante. E sono le parole che meglio descrivono il più grande dualismo della storia del tennis e forse di ogni sport, quello tra John McEnroe e Bjorn Borg.
Qualsiasi rievocazione della rivalità tra i due non può che partire da l 6 luglio 1980 e dal campo centrale di Wimbledon.
Quel giorno i due giocatori tennero in ostaggio per tutto il pomeriggio milioni di spettatori in tutto il mondo, dando vita alla più bella e intensa partita dell’intera storia del tennis. È in particolare il tie-break del quarto set il momento che è entrato nell’immaginario collettivo; ventidue minuti di tensione e puro godimento tecnico. McEnroe annullò la bellezza di cinque matchpoint – e due ne aveva già fronteggiati sul 4-5 – spuntandola alla fine per 18 punti a 16.
L’immagine di Borg che affossa in rete una volee di diritto non proibitiva e si avvia mestamente, a testa bassa, verso il cambio di campo, è assurta a simbolo della carriera dell’orso svedese. Borg – facendo ricorso alle sue inimmaginabili risorse mentali, come le avrebbe definite McEnroe – riuscirà a vincere quella partita al quinto set, ma sarà l’inizio della fine del suo lungo regno.
Come spesso accade nel tennis, e in generale nella vita, non sempre chi porta a casa il trofeo è il vero vincitore.
McEnroe ha tagliuzzato a pezzi talmente sottili Borg e le sue sicurezze che il campione svedese non saprà mai più essere imbattibile come fino a quel giorno. Tanto che un anno dopo, all’ennesima sconfitta col rivale americano, Borg dirà basta ad appena 25 anni.
Ma perché il dualismo tra Borg e McEnroe è entrato nella storia così prepotentemente, molto più di quelli moderni tra tennisti anche più vincenti come Agassi e Sampras o Federer e Nadal?
I motivi sono molteplici, e occorre conoscere bene la storia di questo sport per trovarli. Sia Borg che McEnroe, intanto, furono i potenti propulsori di una svolta epocale nel mondo così classico di questo sport. Il tennis era stato per oltre cent’anni lo sport della nobiltà e dell’alta borghesia e – nonostante l’avvento del professionismo fin dal secondo dopoguerra – i tornei più importanti erano rimasti saldamente ancorati ai ritmi e alla ritualità del dilettantismo.
Solo nel 1968 i due mondi si erano fusi, dando vita alla cosiddetta era Open.
Non fu certo un caso che il ’68 fosse un anno di grandi rivoluzioni, non solo nello sport. Alla metà degli anni ’70, quando il nuovo tennis stentava a trovare una sua dimensione ben definita, Borg fu il primo a importare modalità quasi da rockstar col suo seguito di fan osannanti. Ma non solo, Borg fu una vera rivoluzione copernicana per il gioco, dentro e fuori dai campi. Il suo stile di gioco non si era mai visto prima; all’epoca infatti dominava il “big tennis”, uno stile d’attacco che prevedeva continue discese a rete e punti che si chiudevano in modo spettacolare, in pochi secondi.
Borg introdusse una serie di novità; per cominciare, se ne stava ancorato sulla linea di fondo, ribattendo con colpi potenti – nulla a che vedere con quelli di oggi, ovviamente – e cercando semplicemente di colpire la palla una volta in più dell’avversario. In più colpiva il rovescio a due mani; non era certo il primo a farlo, ma dopo di lui il colpo divenne talmente diffuso da soppiantare quasi del tutto quello più tradizionale a una mano.
Questo dentro al campo; fuori, la rivoluzione fu ancora più profonda. Borg infatti fu il primo professionista a tutto tondo.
Girava col suo staff, con l’allenatore Bergelin che gli impediva perfino di rispondere al telefono per evitargli distrazioni; vantava sponsorizzazioni milionarie, all’epoca mai viste, e studiava perfettamente i calendari dei tornei per ottimizzare al massimo successi e profitti. Questo modo robotico di affrontare il tennis in campo e fuori portò in breve Borg a vivere lo sport come una vera ossessione, che sfociò in una serie di tic e superstizioni difficili da enumerare.
Tutto ciò in un mondo dove i tennisti erano ancora abituati ad allenarsi quando capitava e ad andare a farsi una birra insieme dopo i match.
McEnroe, più giovane di qualche anno, irruppe sulla scena quando Borg, con la sua immagine cristica e i suoi riti quasi mistici, era già un mito. Sembrava fatto apposta per essere il perfetto rivale complementare.
McEnroe era praticamente genio puro.
Refrattario a qualsiasi disciplina, non aveva un coach e si allenava raramente – si annoiava a palleggiare per ore – preferendo giocare e vincere nel doppio.
Famosa è rimasta la frase del suo compagno di doppio Peter Fleming: “La miglior coppia di doppio del mondo è John McEnroe insieme a qualsiasi altro giocatore”.
In campo, John, divenne famoso all’inizio soprattutto per le sue intemperanze che facevano tanto folklore per le riviste di gossip; litigava con gli spettatori, i giudici di linea e l’arbitro, spaccava racchette una dopo l’altra e si meritava dalla stampa soprannomi sempre più coloriti, SuperBrat – super moccioso – su tutti.
Ma era solo fumo negli occhi. Quando McEnroe impugnava la racchetta, dal suo attrezzo uscivano colpi che non si erano mai visti, e che non si vedranno mai più.
Il suo stile avrebbe fatto impazzire ben più di un maestro di tennis, tanto andava contro le più basilari regole.
Il movimento di servizio partiva quasi con le spalle alla rete e prevedeva una torsione del busto che avrebbe distrutto la schiena di qualsiasi atleta in poco tempo. Chi provava a imitarlo spesso non riusciva nemmeno a colpire la palla, risultato: per almeno cinque anni il servizio di John fu il migliore del circuito. I fondamentali da fondocampo erano giocati in modo mai visto, colpendo la palla in perenne anticipo con movimenti di solo braccio, senza praticamente apertura.
Ma era quando Mac scendeva a rete che il sublime aveva compimento; John non si limitava a colpire la palla, la accarezzava impugnando l’attrezzo in legno quasi come un cucchiaino. Le traiettorie erano talmente imprevedibili e precise da sembrare che il giovane di origine irlandese, tutto lentiggini e boccoli ribelli, la posasse con le mani negli angoli più impensati. La demi volee, il passante lento e gli imprevedibili pallonetti erano i suoi marchi di fabbrica; la sua capacità di sfruttare anche le sfuriate che lasciavano tramortiti gli avversari, per concentrarsi ancora di più era unica.
Se Borg, in quel 1980, rappresentava quello che i Beatles avevano rappresentato per la musica negli anni ’60, McEnroe era la sua nemesi; ben più potente dei rivali Rolling Stones, sfoggiava un talento puro molto superiore alla robotica perfezione dello svedese.
La finale di Wimbledon del 1980 fu insomma il vero scontro tra i due titani e tra due stili di vita; chi tifava per la costanza, il sudore e l’impegno sposati allo sport avrebbe scelto Borg; chi amava l’arte e il genio puro, non avrebbe avuto dubbi nel preferire il mancino McEnroe.
“Credo che si possa indicare in McEnroe il tennista più geniale in tutta la storia di questo gioco. La sua magica mano sinistra sapeva ricavare traiettorie incredibili, rotazioni diaboliche, angoli che buttavano l’avversario fuori dal campo” – ebbe modo di scrivere Rino Tommasi, uno dei massimi esperti italiani di tennis.
Il grande scrittore David Foster Wallace disse: “Al suo apice (diciamo dal 1980 al 1984) è stato il più grande tennista di sempre – e il più dotato, il più bello, il più tormentato: un genio.”
In realtà i due giocatori, sebbene spesso si faccia intendere il contrario, si conoscevano già bene e si erano già incontrati prima di quel giorno a Wimbledon; quella fu però la loro partita più importante; si sarebbero trovati ancora di fronte poche settimane dopo nella finale degli US Open. McEnroe la spuntò al quinto set, e vinse anche a Wimbledon l’anno dopo e poi di nuovo a New York, nel torneo maledetto per Borg, che non riuscì mai a vincerlo.
“Borg non aveva più lo stesso fuoco, era come se avesse bisogno di togliersi la pressione di dosso. Dopo cinque anni doveva averne abbastanza. sembrava che nella sua testa avesse accettato di farsi sconfiggere da me” – disse John dopo aver battuto Bjorn a Wimbledon, e ancora peggio fu la sconfitta a New York; Borg aveva conosciuto in vita sua solo il tennis e le vittorie e ora, di fronte alla sconfitta, capiva di volere altro; di volere una vita sua.
Il giorno della finale persa agli US Open non aspettò nemmeno la premiazione, fuggì con la sua auto e abbandonò il tennis, al di là di sporadici e fallimentari ritorni.
“La decisione di Borg di ritirarsi è stato uno dei grandi dolori della mia carriera” – ebbe a dire McEnroe.
L’americano aveva trovato in Borg il rivale perfetto, oltre che un grande amico fuori dai campi – dove Iceman Bjorn era molto meno gelido – e trovarsi improvvisamente il campo libero lo mandò in confusione.
Arrampicarsi in cima alla montagna era stato esaltante, ma una volta arrivato lassù vi aveva trovato venti gelidi.
Dominò senza rivali, o quasi, fino al 1984, il suo anno migliore con uno score ancora oggi non superato. Poi, alla stessa età di Borg, crollò anche lui. Continuò tra pause e ritorni per anni su buoni livelli, ma mai più fu di nuovo in cima.
Borg invece, stanco di tanta perfezione, si concentrò sulla possibilità di sbagliare. Lo fece talmente bene da collezionare la fine del matrimonio con la storica fidanzata Mariana, un’avventura come imprenditore finita in mezzo ai debiti, un eccentrico e fallimentare matrimonio con Loredana Berté e un tentativo di suicidio da cui lo salvò la stessa cantante. Tentò il ritorno al tennis, intestardendosi a giocare con la vecchia Donnay in legno, risultato: 11 sconfitte e nessuna vittoria. Ma anche lui avrebbe finalmente trovato la pace con sé stesso.
La rivalità tra Borg e McEnroe si risolse numericamente in parità, sette a sette.
Ma i numeri – come sempre nello sport – non dicono tutto; fu Borg a uscire con le ossa rotte dal confronto, tanto da lasciare il tennis. La loro eredità lo ha però ricompensato: ancora oggi la maggior parte dei tennisti ha fatto suo l’approccio di Bjorn. Il rovescio a due mani impazza e tracce del suo agonismo senza limiti si possono trovare in Nadal, mentre i suoi aspetti più robotici e disciplinati trovano un erede nel tennis scarno e poco affascinante, ma letale, di Novak Djokovic.
Il destino di McEnroe è stato diverso. I geni deliziano la propria generazione, ma non lasciano eredi e scuole; troppo inarrivabile il suo talento e troppo diverso il suo tennis per pensare di trovarne dei degni epigoni.
Scrisse il drammaturgo Gian Luca Favetto: “Rimbaud e Baudelaire insieme. Volgare e immacolato. Negli anni ’80 sui campi di calcio Maradona era il piede sinistro di Dio; sui campi da tennis la mano sinistra di Dio si chiamava McEnroe”.
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Auralcrave e potete leggerlo qui.