Il 27 settembre del 2020, in un anno che ha sconvolto tragicamente qualsiasi abitudine, comprese quelle del mondo del tennis; Mansour Bahrami scrive sulla sua pagina Facebook, a proposito del Roland Garros che sta per avere il suo avvio fuori stagione:
“Questa foto è del 1989 con il mio partner Eric Winogradsky. Abbiamo fatto un bel torneo per raggiungere la finale del doppio ed è stata una partita combattuta, ma siamo stati sconfitti da Jim Grabb e Patrick McEnroe in quattro set.
Potete vedere quanto siamo stanchi e devastati entrambi, in questa foto. Wino è diventato uno dei miei migliori amici – il ragazzo più gentile che tu possa mai incontrare – la definizione di gentiluomo. Un vero amico. Vorrei che avessimo vinto la finale insieme? Certo che sì!
Scambierei la nostra amicizia per questo? No, no.
A tutti i giocatori del Roland Garros di quest’anno dico di lottare per ogni punto e di dare tutto in campo, ma di non dimenticare mai che nella vita c’è molto più dei trofei.”
Mansour Bahrami è il più grande e amato tennista tra quelli che non hanno vinto mai nulla.
Iran, 1978
I grandi sconvolgimenti di una nazione portano sempre gravi conseguenze, e se quelle internazionali le conosciamo tutti, ben diverso è il discorso per le ripercussioni sulle storie personali.
La Rivoluzione iraniana del 1978, quella che pone al potere l’Ayatollah Khomeyni, fautore di un regime basato sull’applicazione letterale del Corano, ha un effetto minore devastante sulla vita di Mansour Bahrami. Minore, è vero, ma fondamentale nell’esistenza del personaggio che qui viene raccontato.
Facciamo un passo indietro.
Mansour è nato ventidue anni prima, nel 1956, in una famiglia che se la passa tutto sommato bene, tra agricoltura e allevamento. Forse è la siccità il primo grande nemico di Mansour, o forse un suo alleato, chissà?
Fatto sta che la famiglia perde tutto e deve emigrare a Teheran, la capitale dell’allora Persia, dove il padre si mette a fare il giardiniere in un grande centro sportivo.
Il lavoro è tanto, i soldi pochi, e il giovane Mansour si innamora proprio dello sport riservato all’elite, il tennis. Inizia a giocare con qualsiasi cosa gli ricordi, seppur lontanamente, una racchetta; il suo attrezzo migliore è una vecchia padella arrugginita.
In mancanza anche di quella, si arrangia con le mani.
Un giorno gli regalano una vecchia Dunlop Maxply dismessa: in fondo è lo stesso attrezzo di McEnroe. Assieme ad altri piccoli scalmanati della racchetta, il ragazzino – impaziente – inizia a palleggiare su un campo deserto. I guardiani del circolo la prendono male: lo picchiano malamente e gli spaccano la racchetta.
Tuttavia, il talento di Mansour, seppur non coltivato, è grande e, quando la federazione rimane senza giocatori, vuole dare una possibilità al giovane.
E Mansour inizia a stupire, tanto da venire spedito a sedici anni agli juniores di Wimbledon senza una sterlina in tasca. Digiuna per tre giorni e poi scende in campo contro Billy Martin che, alla stessa età, è già una piccola star con coach, preparatore atletico e quindici racchette nel borsone. Risultato: Mansour torna a casa con la bicicletta, non quella vera, ma quella metaforica del 6-0 6-0. Ma anche con la gioia e la consapevolezza che il tennis è la sua strada.
In Coppa Davis si fa valere e vince quasi sempre.
Dopo tanto penare, un po’ di luce, ma una tegola ben più pesante attende il giovane Mansour: la Rivoluzione islamica spazza via tutti i viziosi lussi occidentali, figurarsi il tennis.
Non si sa come – le versioni sono tante e al limite del leggendario – Bahrami raggiunge la Francia, terra promessa del tennis dove ricominciare.
Ma le cose non sono mai così semplici, specie nella vita di Mansour.
Riesce, col visto da atleta, a giocare qualche torneo, ma con lo stomaco vuoto le gambe non collaborano a dovere. Nel 1981 riesce a qualificarsi, da sconosciuto dilettante, al Roland Garros, superando perfino il primo turno.
In quel momento Mansour è poco più che un clandestino: non ha fissa dimora e la notte la passa a camminare per Parigi, per evitare di morire assiderato. La sua cena consiste spesso in una baguette che deve durare anche tre giorni. Lo status di rifugiato non gli interessa, lui vuole essere considerato un tennista e, in questo senso, la prestazione al Roland Garros lo aiuta: il visto viene rinnovato anche grazie ai giornali che si interessano alla sua storia, e dopo altri sei anni arriva la cittadinanza.
Mansour può diventare professionista, a oltre trent’anni.
Vince poco: troppo è il ritardo accumulato, ma soprattutto troppa è la voglia di divertirsi e divertire giocando, tanto che a volte perde per il gusto di dare fondo al suo infinito repertorio di trucchi.
Colpi tra le gambe, tweener li chiameremmo oggi, finte su servizi e smash, smorzate al volo che rimbalzano sul lato dell’avversario e tornano indietro.
Incontra Becker, Noah e altri campioni, rimediando gli applausi del pubblico e degli stessi avversari, increduli di fronte ai giochi di prestigio di quel signore un po’ tarchiato che sfoggia dei baffoni neri come quelli di Groucho Marx.
Nel doppio rimedia qualche vittoria in più: troppo è il rispetto per il compagno di gioco per farlo perdere a causa delle sue mattane quasi da cabaret.
Con Winogradsky arriva addirittura in finale al solito Roland Garros, perdendo solo dai fortissimi Jim Grabb e Patrick McEnroe.
Sempre con un largo sorriso sotto i favoriti ottocenteschi, perché Mansour è così: ha visto talmente bene negli occhi la miseria e la violenza che guadagnarsi il pane giocando a tennis, con racchette vere che nemmeno deve pagare, gli pare già un regalo troppo grande.
Parigi, sempre nel 1981, la sera di Capodanno, gli regala anche l’amore di Frederique; conosciuta mentre sono imbottigliati nel traffico dell’ultima notte dell’anno, conquistata col suo istrionismo e da cui non si è più separato.
L’invenzione del circuito Senior dà un senso alla sua carriera, che a quel punto è un glorioso fallimento a guardare i numeri, e un successo inaspettato a vedere la sua gioia ogni volta che scende in campo.
Tra gli ex giocatori, campioni di una certa età che ancora si divertono con la racchetta in mano, girando il mondo e riempiendo gli stadi forse ancora di più di quando lo facevano per professione, Mansour diventa la stella di prima grandezza.
Finalmente i suoi trucchi da prestigiatore hanno un senso al di là del risultato; nel circuito Senior il divertimento è la cosa che più importa e Bahrami, ormai imbiancato ma sempre scattante, non si sottrae: serve tenendo sei palline in mano e una in bocca, ai pallonetti più alti risponde facendo atterrare la pallina dentro la tasca dei pantaloncini, salta dall’altra parte del campo tra giravolte e colpi mai visti.
Forse solo McEnroe riesce a radunare tanto pubblico quanto lui, e Leconte – uno dei cavalli matti più matti del circuito – come compagno di doppio fa la figura della persona seria.
Durante il lockdown del periodo Covid, risponde al challenge di Federer che palleggia contro il muro, facendolo alla stessa velocità, solo che al posto dell’attrezzo usa una scarpa, una padella, le mani.
Per il leggendario svizzero è il giocatore più divertente da vedere, per McEnroe un genio e per Nastase il Maestro.
Lui, quando gli chiedono se abbia rimpianti per le occasioni mancate, i fallimenti sul campo e il tempo perso, risponde col suo sorriso, largo e sincero, di essere “la persona più fortunata del mondo”.