Ubaldo Oppi, nato a Bologna nel 1889, è un personaggio che sembra uscito da un romanzo ottocentesco: un po’ vagabondo, un po’ filosofo, ma soprattutto un grande artista.
La storia di Ubaldo Oppi è un giro del mondo fatto d’arte, guerra e un ritorno alla semplicità condito da una crisi mistica che condiziona i temi degli ultimi anni. Una sorta di evoluzione al contrario, che porta Oppi dalle avanguardie degli inizi a un ritorno al classicismo che lo vede dipingere affreschi come un artista rinascimentale.
Fin da giovane, Oppi sente il richiamo dell’arte e, frustrando il desiderio del padre che lo vorrebbe nel commercio delle scarpe come lui, si sposta per l’Europa come un bohémien. A Vienna incontra Klimt, a Parigi Severini, Picasso e Modigliani. Rimane colpito dalle avanguardie, ma non si lascia mai del tutto sedurre.
A Parigi lo chiamano “Antinoo” perché è giovane, bellissimo e atletico. Piace al punto che Fernande Olivier, compagna di Picasso, che notoriamente non è proprio un bonazzo da copertina, non ci pensa due volte e cambiare bandiera: è lei, con ogni probabilità, ad apparire come modella in tante tele di quel periodo.
Nel 1914, però, per Oppi arriva una bella mazzata: la Prima Guerra Mondiale. Arruolato, vive l’insensata esperienza del fronte che, ovviamente, lascia un segno profondo nella sua vita e pittura, che diventa più riflessiva e intimista. Quando torna alla vita civile, Oppi si inserisce nel movimento del Realismo Magico, quella corrente che sembra fatta apposta per raccontare il non detto, il mistero dietro le apparenze.
Le opere di Oppi sembrano rappresentare scene di tranquilla quotidianità, ma sotto la superficie nascondono un che di inquietante. Oppi non ama andare sopra le righe. I suoi dipinti, realizzati con una tecnica precisa e meticolosa, sono pieni di dettagli che invitano a guardare da vicino: il panneggio di un vestito, la trasparenza di un velo, un paesaggio sullo sfondo.
E se negli anni più d’avanguardia Oppi privilegia figure emaciate e sofferte, con l’amore per Adele Leoni, futura moglie e soggetto dei suoi ritratti, si apre a opere che rimandano all’arte classica e sono permeate di serenità. Opere che gli danno un buon successo per tutti gli anni tra le due guerre.
Oppi non sembra però interessato a diventare una star dell’arte. Dipinge per se stesso, per dare forma a un’idea di bellezza che sembra guardare al passato, ai maestri del Rinascimento e della pittura italiana del Quattrocento. L’arrivo di una crisi mistica, probabilmente dovuta al trauma della guerra, dà frutti bizzarri.
Oppi si dedica agli affreschi religiosi, dipingendo come se lo spirito di qualche grande del Rinascimento si sia impossessato di lui. La Cappella di San Francesco nella Basilica di Sant’Antonio a Padova ne è la testimonianza più spettacolare. Un ciclo dipinto alla maniera dei grandi del Quattrocento che, a non sapere l’autore, potrebbe facilmente passare per un’opera classica.
La sua parabola si chiude a Vicenza nel 1942, in una città che sembra riflettere il suo mondo interiore: silenziosa, raccolta, con quella bellezza discreta che non cerca mai di imporsi. Non manca però un ultimo inopinato colpo di scena: l’odioso regime del ventennio trascina l’Italia di nuovo in guerra. Oppi ha più di cinquant’anni ed è malato, ma viene richiamato al fronte. Presto, però, deve essere congedato e se ne va poco dopo, a 53 anni.
La sua parabola è tra le più luminose del Novecento italiano, anche se oggi pochi lo ricordano. I suoi eccezionali affreschi vengono così immortalati dal critico Giuseppe De Mori nel 1937: “Non c’è in Italia saggio d’arte sacra moderna che regga il confronto con gli affreschi di Ubaldo Oppi, in cui egli si conferma precursore e maestro.”
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