Se passate da Roma o Genova, ci sono buone probabilità di trovarvi davanti alle opere di uno dei geni più surreali e visionari dell’architettura italiana, Gino Coppedè.
Nato a Firenze nel 1866, Gino Coppedè non è un architetto qualunque. Lui non costruiva palazzi: li decorava, li vestiva a festa, li caricava come un albero di Natale. Perché per Coppedè ogni facciata è una tela, ogni edificio un esperimento, e ogni città la sua personale Disneyland.
Lo stile di Coppedè non si spiega facilmente, perché è un miscuglio di tutto: un po’ Liberty, un po’ neogotico, un tocco di barocco e medievale, il tutto messo in quel frullatore impazzito che era il suo cervello. L’unica certezza è che le sue opere sono inconfondibili, tra stucchi, torrette, mosaici e dettagli che sembrano usciti da un racconto gotico o da una fiaba bizzarra.
O da un film di Dario Argento, che scelse per alcune sequenze la sua opera più celebre, il Quartiere Coppedè a Roma, di cui vi ho già raccontato.
Un angolo di città dove il suo genio visionario dà libero sfogo a ogni capriccio architettonico. Qui si trovano il famoso Palazzo del Ragno e la Fontana delle Rane, dove si dice abbiano fatto il bagno i Beatles (che passarono davvero di lì, anche se il bagno è una leggenda). Il quartiere è un concentrato di stranezze: archi decorati, lampioni liberty, stemmi medievaleggianti e simboli misteriosi che nemmeno quel dritto di Dan Brown riuscirebbe a inventare.
A Genova, Coppedè ha contribuito a trasformare il quartiere di Albaro con ville che sembrano castelli incantati. Il capoluogo ligure è sicuramente il posto giusto per ammirare il genio bizzarro di Coppedè, specie con Castello Mackenzie e Castello Türcke.
Anche la mia regione, l’Abruzzo, cela qualche testimonianza dell’estro discontinuo dell’architetto, a Lanciano e – soprattutto – nell’inquietante Villa Marcantonio, a Mozzagrogna, dove non mi dispiacerebbe ambientare una bella storia gotica, e non detto che non lo faccia.
Peccato che il mondo dell’architettura ufficiale non lo abbia mai preso troppo sul serio. Troppo bizzarro, troppo eclettico, troppo… “troppo”. Ma a distanza di un secolo, Coppedè continua a stupire e affascinare, dimostrando che, quando si tratta di costruire qualcosa di memorabile, il troppo non è mai abbastanza.
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