Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

“Ronda di notte”: dentro il capolavoro di Rembrandt

“Ronda di notte”: dentro il capolavoro di Rembrandt

Cominciamo con gli equivoci. La “Ronda di notte”, il più celebre e celebrato capolavoro di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, non raffigura una ronda e, se anche fosse una ronda, non sarebbe ambientata di notte.

All’epoca, peraltro, non si usa dare titoli ai dipinti, ma visto che in qualche modo bisognava pure riferirsi alla tela, il titolo era probabilmente “La Compagnia del capitano Frans Banning Cocq e del tenente Willem Van Ruytenburch”. Allora che c’entra la ronda? E perché di notte? E – soprattutto – chi accidenti erano Frans Banning Cocq e Willem Van Ruytenburch, personaggi entrati nella storia grazie a Rembrandt?

Piano, ci arriviamo. Il titolo, intanto, viene utilizzato per la prima volta nel 1715, mentre il dipinto è commissionato per celebrare l’arrivo di Maria de’ Medici ad Amsterdam nel 1639. Nel 1715, peraltro, Rembrandt è piuttosto “freddo” verso il nuovo titolo: il pittore è bello che morto da quasi cinquant’anni.

È in quell’anno che la tela viene spostata nella sala del consiglio di guerra del municipio di Amsterdam. A quel punto i colori forse di non grande qualità usati si sono così scuriti che la scena è diventata “notturna” suo malgrado. Non solo, la corporazione degli archibugieri ritratta ha perso talmente importanza da essere impiegata solo per le ronde notturne. La nostra “ronda” è anche sfortunata: nel trasferimento subisce anche il primo di tre atti di vandalismo che la deturpano.

Infatti, per adattare il dipinto alla nuova sede, indovinate quei selvaggi che fanno? “Amici di Amsterdam, la tela è troppo grande, cosa fare? Suggerirei di andare a fumare qualcosa in un Coffee Shop e poi decidiamo!” Le cose devono essere andare pressapoco così, perché bisogna essere sotto l’effetto di qualche sostanza bella tosta per decidere di tagliare il capolavoro di Rembrandt come fosse un prosciutto di Parma.

E sì, per farlo stare nella porzione di muro scelta, ne tagliano un metro a sinistra e trenta centimetri a destra, come fosse carta da parati. Vabbè, lasciamo stare.

E ora, chi erano Frans Banning Cocq e Willem Van Ruytenburch? Nulla di che, due riccastri di Amsterdam che giocavano ai soldatini. Cocq, il committente, è un facoltoso medico che però vuol farsi passare per un super virilone uomo d’armi: ricordatevi sempre che all’epoca i SUV non c’erano e i ricchi si sparavano le pose così. Cocq decide di farsi ritrarre a capo della sua scombinata compagnia mentre impartisce qualche ordine.

Quanto lo stiano a sentire è chiaro dalla messa in scena di Rembrandt, in cui io – mia opinione – ci vedo un po’ di malizia del grandissimo artista. All’ordine perentorio di Cocq, ognuno fa un po’ il cacchio che vuole.

Van Ruytenburch guarda da un’altra parte, attento più che altro a non sporcarsi il suo vestito da damerino, il tipo in rosso impugna il fucile dalla perte sbagliata, altri inalberano le picche ognuno da una parte diversa, il tamburino suona un pezzo di Mahmood e un tipo coi baffi sembra indicare la perfida luna declamando versi di un poeta locale.

Non solo, un canuccio simpatico punta le caviglie del tamburino e una bambina vestita di giallo si aggira elegantissima con un pollastro appuntato alla cintola.

Insomma, Rembrandt – non si è geni per niente – trasforma un banalissimo ritratto di nobilotti in una scena frenetica, di quelle dove senti la vita che pulsa e ti pare quasi di sentire i rumori concitati. Non per nulla, dice di lui il critico Gombrich: “Nei ritratti di Rembrandt ci sentiamo di fronte a veri e propri esseri umani, ne percepiamo il calore, il bisogno di affetto e anche la solitudine e le sofferenze. Quegli occhi sagaci e attenti dei suoi autoritratti sembrano mettere il cuore a nudo.”

La bambina, così fuori contesto col pollo e tutto quanto, è un’allegoria che richiama la vittoria, il nome di Cocq (“gallo” in francese) e lo stemma degli archibugieri (gli artigli).

In realtà, il geniaccio la usa soprattutto per dare equilibrio e luminosità ai colori della tela. Già, la luce, la fantastica luce di Rembrandt, usata in modo sublime dall’artista con un risultato che richiama le tele prodigiose di Caravaggio.

Eppure, qualcuno ebbe il coraggio di lamentarsi. I committenti erano sedici e la paga di Rembrandt giustamente profumata. I personaggi, però, sono trentuno e qualcuno dei riccastri obiettò che quindici – la matematica non è un’opinione – erano stati ritratti gratis, e magari anche in pose migliori. Rembrandt – pare – si consolò contando i fiorini.

Gli altri atti di vandalismo?
Nel 1975 al Rijksmuseum un uomo vuole trasformare la “Ronda di notte” in un quadro di Fontana e la omaggia di tredici squarci, mentre nel 1990 un altro che ha smarrito qualche venerdì per strada ci butta sopra dell’acido. Entrambe le volte la tela ne esce comunque bene.

Samuel von Hoogstraten, allievo di Rembrandt, a testimonianza che a volte il genio è compreso anche in vita, ne traccia una descrizione breve e definitiva: “È così pittorica nella concezione, così impetuosa nei movimenti e così fortemente espressiva che i quadri che gli figurano accanto nella sala sembrano al confronto carte da gioco.”

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