Tito Flavio Vespasiano è l’underdog dell’Impero Romano, è l’homo novus che scala il potere, il borghese piccolo piccolo che diventa Imperatore, l’Italia dell’82 che vince il mundial, il tennista che vince Wimbledon partendo dalle qualificazioni.
Dopo Nerone e i suoi disastri e dopo la guerra civile con Galba, Otone e Vitellio che, in una gara al ribasso, riescono a fare uno peggio dell’altro, Vespasiano riporta l’ordine a Roma, ripara il dissesto finanziario e tiene il potere saldamente per dieci anni. Il tutto, siore e siori, senza essere nobile, primo caso nella storia di Roma.
La saga di Flavio ci insegna innanzitutto una cosa: la stup*dità non è esclusiva del tempo dei social. Pensate, infatti, che l’uomo che prende il potere da zero, si copre di gloria in ogni angolo dell’Impero e lascia in eredità il Colosseo, viene ricordato per i cess* pubblici, i vespasiani che prendono il nome in suo onore.
Ma partiamo dall’inizio.
Tito Flavio Vespasiano nasce dalle parti dell’odierna Rieti e appartiene all’ordine equestre: due caratteristiche che non gli rendono certo scontato il successo militare e politico. La sua ascesa è lineare e inarrestabile, ma non priva di contrasti. Flavio è ancora giovane quando ricopre la carica di edile e impara che un Imperatore può essere folle.
Caligola, quel buontempone, un giorno lo accusa di non aver fatto pulire bene le strade e lo umilia facendolo imbrattare di fango davanti a tutti. Pensate se il buon Cali fosse vissuto nella Roma di oggi. Lui però non demorde: troppi ne vedrà passare di presuntuosi che faranno una bruttissima fine.
Vespasiano ricopre un po’ tutte le cariche e partecipa a un numero infinito di campagne militari. Sotto Claudio conquista la Britannia e – cantando “sai dov’è l’Isola di Wight?” – anche l’isola di Vette. Quando Nerone lo vuole con sé nel suo tour artistico in Grecia, Vespasiano rischia grosso. Lui, infatti, è un uomo semplice dai gusti semplici: gli piace la terra da coltivare, la famiglia e lo sterminio degli avversari sul campo di battaglia. La poesia non fa per lui.
Nerone, poi, è peggio di un poeta locale alla sagra del peperone di Altino, risultato: ogni volta che l’Imperatore declama, Vespasiano si addormenta o prende e se ne va.
Nerone s’incaz*a di brutto e lo caccia dalla corte: a Flavio va già bene così e a non perdere la capoccia. Quando ormai si è rassegnato a coltivare i campi, però, Nerone si ricorda di avere un problemino con le rivolte dei Giudei e lo richiama.
Allo scoppio della guerra civile, Flavio è impegnato proprio in Medioriente e aspetta gli eventi. Dopo i disastri di Galba & company, le sue legioni lo acclamano Imperator: lui vorrebbe rifiutare, dato che i precedenti cinque Imperatori sono morti ammazzati male, sapete com’è. Quelli però sono più insistenti di Simone lo Zelota in Jesus Christ Superstar e lui cede.
C’è anche un altro fattore, un po’ superstizioso, che lo convince.
Tempo prima ha fatto prigioniero Yosef ben Matityahu, il capo dei ribelli. L’uomo, un gran parac*lo, quando è al suo cospetto gli profetizza in base a non si sa cosa, che sarà Imperatore.
Vespasiano si fa intortare per bene e lo grazia. Quell’uomo diventerà lo storico Flavio Giuseppe. A lui si deve, per esempio, una delle poche testimonianze storiche dell’esistenza di Gesù.
Insomma, Flavio Vespasiano lascia il figlio Tito in Giudea e marcia su Roma. Per rendere saldo il suo potere, ha bisogno che Tito riporti il tesoro del tempio e così accade, dopo un massacro senza precedenti, con un Trionfo che non si vedeva dai tempi di Augusto. Vespasiano si rivela un governatore saggio e inflessibile, che non ripete gli errori dei predecessori. Risana i conti, prende le distanze dalle smanie autoritarie di Caligola e Nerone, riempie le casse e – anziché buttare i soldi dal balcone – restaura la città.
La sua praticità di uomo del popolo è proverbiale. Concede la cittadinanza alle province lontane per spremerle con le tasse. Mette addirittura la famosa gabella sui bagni pubblici, al grido di “pecunia non olet”, il denaro non puzza. Da allora, le latrine prendono il suo nome.
Soprattutto, però, Vespasiano passa alla storia per il Colosseo, l’anfiteatro Flavio per la precisione, che costruisce dopo aver spianato la Domus Aurea di Nerone e, con essa, il ricordo dell’Imperatore folle. Prima di morire risolve l’annoso problema della successione, nominando Tito e Domiziano, i figli, come successori.
L’ultima perla sul letto di morte, nel giugno del 79.
Da sempre sarcastico verso la smania degli Imperatori di essere considerati divini, dice: “Vae, puto deus fio!” che suona un po’ come “Maledizione! Credo che sto per diventare un dio!”
Qui altri post e storie sull’arte: Andrea La Rovere