Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Norman Rockwell, fare la rivoluzione a settant’anni

Norman Rockwell, fare la rivoluzione a settant’anni

C’è una celebre frase attribuita a Winston Churchill che recita più o meno così: “Se non sei di sinistra a 20 anni non hai cuore, se non sei di destra a 40 anni non hai cervello.” Non so se il buon Winston abbia davvero pronunciato l’aforisma o se, come per la maggior parte delle frasette da meme di Facebook, sia inventata, fatto sta che la storia di Norman Rockwell dimostra che può essere vero il contrario.

Norman Rockwell non è famosissimo, da noi, ma di sicuro avrete già visto qualcuna delle immagini che vi propongo. Il discorso cambia se andiamo negli Usa, dove Rockwell è uno degli artisti – illustratori sarebbe meglio – più celebri della storia. Questo in virtù delle oltre 300 copertine dipinte per The Saturday Evening Post – una sorta di Domenica del Corriere americana – ma soprattutto per aver dipinto per decenni la faccia pulita del Sogno Americano.

Anzi, più che “dipinta”, si può dire che Rockwell l’abbia inventata.

Norman è per certi versi il pittore di quell’America ottimista, sorridente e un po’ naif, quella dei film di Frank Capra e della democrazia esportata con un sorriso aperto e gioviale da buon padre di famiglia. Un sorriso, si badi bene, sempre pronto a mostrare denti aguzzi e a scoprire le gengive come un lupo famelico.

Il giovane Norman inizia illustrando il giornalino dei boy-scout, e già questo farebbe presagire il disastro. È talmente fesso che, quando lo riformano all’arruolamento per la I Guerra perché pesa quattro chili meno del minimo consentito, passa una notte intera a ingozzarsi per recuperare ed essere spedito a fare da carne da macello chissà dove. Gli va di culo: pure nell’esercito lo mettono a disegnare e non vedrà mai un campo di battaglia.

Nelle immagini di Rockwell siamo sempre nel migliore dei mondi possibili (l’America, ovvio), dove nulla va mai storto.

Nel mondo di Rockwell gli anziani sono gioviali e si tengono per mano, le bambine sono leziose e carucce, i bambini sono monelli ma sempre lesti a recepire la ramanzina del padre, austero e distante ma di buoni sentimenti.

Nell’America di Rockwell i soldati tornano sempre a casa, provati ma felici, per riabbracciare le famiglie dopo aver insegnato come si vive al resto del mondo, vedasi “The American Way”, col Marine che imbocca la bambina sfortunata. Nessun soldato torna avvolto nella bandiera (direbbe De André: Le loro spoglie nelle bandiere/Legate strette perché sembrassero intere), giammai, e nessun generale si sognerebbe di sganciare bombe atomiche o di radere al suolo città intere come atto dimostrativo.

Nel mondo di Rockwell il postino è contento di essere inseguito dai monelli e il medico di paese è sempre rubizzo e pacioso, le donne stanno al loro posto e i neri – quelle poche volte che ci sono – fanno gli autisti o i camerieri o i servitori. Del resto, al “Post” deve essere così, è scritto addirittura sul contratto. Le famiglie festeggiano unite il Ringraziamento e – prima di addentare il tacchino e imbarcarsi in un’altra guerra – pregano tenendo lo sguardo basso come chi ha la coscienza sporca.

E se l’America perde l’innocenza con le atomiche in Giappone o con la Guerra Fredda, imbarcandosi in assurdi conflitti in Corea o in Vietnam, il massimo che accade nelle illustrazioni di Rockwell è che un bambino scopra che Babbo Natale non esiste, trovando il costume in un vecchio cassetto.

Quella di Norman Rockwell non è arte nel senso stretto, è illustrazione. Della miglior qualità possibile, certo: la sua è davvero una mano fatata, sebbene leziosa. Ma l’invenzione, la visione, quell’essere avanti di tre mosse sulla realtà, le caratteristiche del vero artista, qui brillano per la loro assenza. L’arte di Rockwell, insomma, è quella che accontenta il fruitore di bocca buona, quello che non vuole tanti problemi o pensieri, il buon repubblicano che oggi vota Trump e guarda ancora con sospetto le donne che votano.

Eppure, già negli anni Trenta, Rockwell si infatua dell’Europa, dove viaggia per quattro volte, e medita di dare una svolta al suo stile, rendendolo più contemporaneo. Il direttore del “Post” lo scoraggia, forse facendogli capire che lì quella roba da “comunisti” non è ben accetta. Norman fa due conti e continua a mettere su tela l’ottimismo un po’ ipocrita dell’American Way of Life.

Bisogna aspettare il 1964, quando Rockwell ha 70 anni, per assistere alla sua inusitata trasformazione. Non sappiamo se Norman prenda una botta in testa o se c’entri la sua fresca vedovanza, fatto sta che il nostro diventa improvvisamente il paladino dei diritti civili. Al “Post” non c’è più “post” per lui e se ne va a disegnare per Look, rivista più aperta alle nuove idee.

Il primo segnale è “The Golden Rule”, illustrazione dipinta ancora per il “Post” che mostra persone di varie etnie e fedi attorno alla scritta “Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.

Il quadro pacifista provoca subito un risultato: per la prima volta in 45 anni, Rockwell riceve lettere d’odio. Forse quell’America dalla faccia pulita, a grattare bene così pulita non è.

Il manifesto dell’ultima – e più interessante – fase di Rockwell è “The Problem We All Live With”, opera insolita per Norman, minimalista ed efficace, che ritrae una bimba nera che cammina tra quattro poliziotti che la scortano a scuola. La bambina è Ruby Bridges, la prima bambina afroamericana a entrare nella scuola elementare William Frantz, frequentata all’epoca solo da bianchi, in Louisiana, durante la crisi di desegregazione della scuola di New Orleans nel 1960.

Al “Post” quell’idea non interessa, e Rockwell la può dipingere solo nel 1964, attirandosi altro odio e imparando com’è difficile fare la cosa giusta. Norm si spinge ancora più in là con “Murder in Mississippi”, in cui raffigura l’uccisione di tre attivisti per i diritti civili – Mickey Schwerner, Andrew Goodman e James Chaney, due bianchi di New York e un afroamericano – da parte della polizia e di esponenti del Ku Klux Klan.

La tardiva rivoluzione di Rockwell dura qualche anno, in cui il pittore ci lascia le sue cose migliori, poi l’età gli presenta il conto e lo costringe al ritiro. Poco male, la vita di Norman Rockwell è la dimostrazione che non c’è età per usare il cuore e che non è mai troppo tardi per abbracciare la causa giusta. In fondo, le persone non cambiano, ma l’eccezione si trova sempre.

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