Riprendiamo le nostre storie degli imperatori romani con la terza puntata dedicata all’estenuante saga di Ottaviano Augusto. Avevamo lasciato il nostro machiavellico eroe all’alba del secondo triumvirato.
Ottaviano in una cosa è imbattibile: tenere – per finta – il profilo basso.
In questo primo accordo con Marco Antonio e Lepido, infatti, si fa assegnare Siria, Sardegna e Africa proconsolare, un po’ come se oggi si fosse preso che so, il Ministero del Turismo. Marco Antonio ovviamente si fa intortare e si convince sempre più che Ottaviano sia poco più che un suo giovane ammiratore e quasi medita di regalargli la testa di Cicerone autografata.
Ed è proprio il buon Cicerone il primo che deve ricredersi su quell’ingenuo “ragazzo mandato dagli dèi”, come l’aveva definito. I triumviri, infatti, per rinverdire gloriose tradizioni, come primo provvedimento emanano delle belle liste di proscrizione. Cicerone, che aveva parlato un po’ troppo contro Marco Antonio (in Abruzzo diremmo che era un “voccaperta”), è il primo a pentirsi.
Marco Antonio non è tipo da replicare sul piano dialettico, non ce la può fare. In compenso, lo fa decapitare, gli fa tagliare le mani e fa appendere tutto il set sui rostri, laddove Cicerone si era più volte coperto di gloria. E Ottaviano? Il nostro non fa nulla per salvare il suo primo estimatore. Cioè, vorrebbe tanto, ma sapete com’è, quella sera davano alla tele Matlock e la cosa gli passa di mente.
Celie a parte, Ottaviano si rivela il più sanguinario nel punire i nemici, con le liste ma anche a Filippi. Dopo aver rischiato la pellaccia (Ottaviano tutto è tranne che un capace militare), i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino vengono sconfitti soprattutto grazie a Marco Antonio, che in battaglia è nella sua comfort zone.
Anche qui Ottaviano svela il suo sanguinario lato oscuro: manda le teste dei due a Roma e fa un bagno di sangue tra i prigionieri.
Poi, zitto zitto, con un nuovo accordo si prende l’Italia, la Sicilia, l’Iberia, e la Sardegna e la Corsica. Sempre con l’idea della pax in testa, muove guerra a chiunque gli si pari davanti. Prima a Lucio Antonio, fratello ancora più ottuso di Marco, poi a Sesto Pompeo e ancora a Lepido. Li batte tutti, ça va sans dire, e Lepido viene confinato al Circeo, pur rimanendo Pontefice Massimo, sai che soddisfazione.
Rimangono a questo punto Ottaviano e Marco Antonio.
Il primo, dopo aver visto “Highlander” su una vecchia VHS, si fissa con la tag-line del film: “Ne rimarrà uno solo!” va blaterando per tutta Roma mentre i senatori lo guardano facendo spallucce. Marco Antonio, nel frattempo, per seguire le orme del maestro Giulio Cesare, si rimbambisce appresso a Cleopatra.
La Regina d’Egitto, che fosse nera come nella nuova docufiction o con gli occhi viola come Liz Taylor, di sicuro sa come manipolare un baccalà romano in alta uniforme. E mentre Marco Antonio si mette a giocare al faraone, Ottaviano a Roma si lavora di fino il Senato, fino a convincerli che no, così non va, e che Marco Antonio è un pessimo romano che si perde dietro alle gonnelle straniere.
Qui Marco Antonio mostra tutta la sua pochezza di politico.
Sono dieci anni che Ottaviano gli sta togliendo la terra da sotto ai piedi e lui è ancora convinto di essere il numero uno.
Il generalone che si rigira il giovanotto come un calzino, quello che lo butti in mezzo al branco di lupi e diventa il capo, il maschio alfa della situazione. Peccato che non capisca che il calzino, in questo caso, è lui.
Emblematica è la lettera che scrive a Ottaviano Augusto: “Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi accoppio con una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che iniziò? E tu ti fai solo Drusilla? E così starai bene se quando leggerai questa lettera, non ti sarai fatto Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte. Giova forse dove e con chi ti accoppi?”
In sintesi: Ottaviano si lavora il Senato per fargli la pelle, e lui pensa di stare al pub a vantarsi delle tacche sul suo gladio. Quando Ottaviano, con la scorrettezza che gli è propria, legge in Senato il testamento di Marco Antonio in cui si adombra la prospettiva che l’Egitto vada alla stirpe di Cleopatra, apriti cielo!
Che il documento sia vero o no, che Ottaviano abbia fatto un’infamata di prima categoria non conta: Marco Antonio è dichiarato nemico pubblico e – mentre quello fa battutacce che manco Pio e Amedeo – Roma gli muove guerra.
Nel giro di due anni Marco Antonio e Cleopatra finiscono sotto un buon metro di terra e finalmente Ottaviano ha il potere tutto per sé.
Ora, non è che Ottaviano, dopo aver sbaragliato Marco Antonio, si alza una mattina, si affaccia al balcone e proclama l’Impero: chi farebbe mai una stupidaggine del genere? Beh, a parte Mussolini, ovviamente. E allora, se proprio vogliamo indicare una data d’inizio, potremmo scegliere il 13 a.c. quando Lepido, confinato al Circeo ma sulla carta ancora Pontefice Massimo, toglie il disturbo, lasciando Ottaviano con tutti i poteri in mano.
Il governo di Ottaviano è lunghissimo e prospero.
La celebre “Pax Augustea”, la pace come la intende Augusto, consiste nel mettere fine alla guerra civile e nell’innescarne altre decine per allargare i confini che, sotto l’imperatore, si ampliano a dismisura.
Roma ne beneficia e diventa di una magnificenza inimmaginabile. Basti la famosa frase del nostro, sempre umile, che dice di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. Anche nel campo della cultura Ottaviano decide che è ora di finirla con la Grecia qua e la Grecia là, Roma deve essere più grande. Grazie anche a Mecenate e al suo circolo, vengono fuori autori come Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, Properzio e Vario Rufo. Lo stesso Augusto è un letterato di buon livello.
Insomma, la felicità – dopo tante macchinazioni – può dirsi completa?
Mica tanto, perché il cruccio di Ottaviano sono le sue vicende personali, un intreccio degno di una soap opera scritta sotto acidi. Ovviamente, per parlare seriamente di questi argomenti, bisogna calarsi nel contesto dell’epoca, totalmente diverso dal nostro. Io, che non sono né serio né competente, ve ne parlo un po’ a casaccio.
Ottaviano tratta le sue vicende sentimentali come fa con tutto il resto, considerando mogli, figli e parenti solo un altro mezzo per consolidare il potere. Per fare pace con Marco Antonio ne sposa la figliastra, Clodia Pulcra, avendo già bene in mente che poco dopo provvederà a fare le scarpe, vabbè i calzari, al patrigno stesso. Forse per questo non consuma il matrimonio – o magari perché Clodia ha 12 anni, fate voi – e due anni dopo la rimanda indietro come un reso di Postalmarket.
A Marco Antonio, per contropartita, fa sposare l’amata sorella Ottavia, famosa per la discutibile pettinatura che il soldatone presto si premura di ornare con un bel cesto di corna non appena conosce Cleopatra.
Augusto sposa allora Scribonia, più grande di lui. Quella che oggi verrebbe definita una milfona. Il sodalizio è stavolta necessario per accattivarsi le simpatie di Sesto Pompeo, di cui lei è parente: poco dopo si renderà necessario anche muovere guerra verso l’uomo, ma questi sono dettagli. Scribonia, secondo alcuni più noiosa di una conferenza di Paolo Mieli, gli dà l’unica figlia: Giulia, tanto desiderata da Ottaviano e che di lì a poco avrebbe tanto desiderato non avere.
Dopo appena un anno, Ottaviano si innamora di Livia Drusilla, o meglio, si innamora dell’idea di imparentarsi la Gens Claudia. Da buon padre e marito di una volta, caccia di casa Scribonia il giorno stesso in cui quella gli scodella l’unica figlia e si porta in casa Livia, incinta, strappandola al marito. Questi si chiama Tiberio Claudio Nerone, un nome che contiene il riassunto delle future puntate.
Perfino i romani, che non brillano per sentimentalismo, borbottano che così non si fa, ma Ottaviano comanda e quindi i mugugni si tacciono subito. Il matrimonio con Livia è quello giusto, ma non darà ad Augusto l’anelato erede. O meglio: secondo alcuni la donna è incinta in realtà proprio dell’imperatore e Druso sarebbe quindi suo figlio.
La questione della successione è il vero cruccio di Ottaviano Augusto: i suoi piani – a volte improbabili – sono tutti riusciti e ora si ritrova senza un erede. È il colmo!
Non solo, in questo senso Ottaviano pare portare più scalogna di una mandria di gatti neri inferociti. Uno alla volta, il princeps sotterra tutti gli eredi che designa, al punto che molti candidati se ne vanno scappando ravanandosi le parti basse per scaramanzia.
La linea di Augusto pare essere questa: “Vi prego, chiunque, pure Signorini o Malgioglio, ma non Tiberio!” che è il primo figlio di Livia e gli sta proprio sulle balle. E, alla fine, sarà ovviamente proprio Tiberio a diventare Imperatore.
Per arrivare a lui spariscono nell’ordine: Marcello (un nipote, quello del Teatro di Marcello), Marco Vipsanio Agrippa, i nipoti Gaio e Lucio, Druso e Agrippa Postumo. Tiberio, che probabilmente odia Ottaviano e vedremo perché, è quindi la settima scelta!
E Giulia, l’unica rampolla? Dopo averla usata come una pedina degli scacchi facendola sposare tre volte con uomini che quella non vorrebbe manco nella “friend zone”, la fa esiliare e poco ci manca che non la faccia pure uccidere. Cosa a cui penserà Tiberio, suo terzo marito e protagonista della prossima puntata.
Qui altri post e storie sull’arte: Andrea La Rovere