Mio padre aveva il demone delle auto.
Lo racconto spesso, le cambiava ogni due per tre, se ne infatuava e poi si stancava subito; le dava via e si pentiva, le riprendeva e subito si ricordava perché se ne era stufato.
Bastava che vedesse una sagoma arrugginita abbandonata in un campo, magari adibita a fienile o pollaio, e subito l’occhio si illuminava come quello di un pazzo.
Le trattative erano a volte brevi, altre estenuanti, specie per mia mamma che assisteva rassegnata: c’era chi aveva il vizio del bere, chi delle scappatelle, lui aveva quello delle macchine. Poteva andare peggio, si diceva.
A quei tempi cambiare auto era uno scherzo, senza spese di passaggio folli e con la burocrazia ridotta all’osso. Le occasioni fioccavano, negli enormi purgatori dei piazzali delle grandi concessionarie, dove auto di tutti i tipi attendevano di iniziare la loro seconda vita. Poi c’era l’inferno dei piccoli rivenditori, sempre pronti al raggiro e a spacciare per cavallo di razza qualche ferrovecchio buono per la pressa dello sfasciacarrozze.
Per la discesa in questi inferi ci sarebbe voluto un buon Virgilio a fare da guida. A volte la realtà è più improbabile della fantasia di uno scribacchino, ed ecco che mio padre aveva trovato il suo Virgilio nel proprietario della concessionaria Renault, che si chiamava – per l’appunto – Virgilio.
Passavamo a trovarlo quasi tutte le settimane, lui ci portava al bar a prendere il caffè e per me un succo di frutta, poi ci apriva le porte del reparto usato, sempre foriero di meravigliose assurdità.
Virgilio esordiva immancabilmente con: “Tizia’, teng la macchina che fa per te!” E puntualmente tentava di rifilare a mio padre qualche vecchio catorcio, meglio se diesel, una sua vera fissazione. Una sabato ci vendette così, su due piedi, una Ritmo Energy Saving che pareva nuova di pacca, per cinquecentomila lire.
Le loro schermaglie erano proverbiali; mio padre, guidatore appassionato con qualche esperienza da corridore, amava le auto sportive che rombavano e puzzavano di benzina; l’amico era un sostenitore dei motori a gasolio in cui, da buon profeta, vedeva il futuro. Peccato che all’epoca la terra fosse ancora dominata dai dieselsauri.
Molti di voi che state leggendo queste povere righe, di sicuro, guidano una moderna auto diesel, silenziosa, fluida e parca nei consumi. I più giovani conoscono solo questo lato della motorizzazione a gasolio, figli della tecnologia common rail, peraltro inventata da un fisico barese; i più navigati ricorderanno i diesel di una volta: terrificanti.
Le auto a gasolio erano quasi sempre versioni da lavoro di grandi berline; tipiche erano le Opel, indistruttibili, lentissime e perennemente avvolte da una nube nera e puzzolente che faceva rimpiangere la nuvoletta dell’impiegato di Fantozzi. Le auto, spesso in colori poco fantasiosi se non disturbanti – certi toni di marrone o verde che suscitavano ribrezzo – diventavano in breve tempo completamente nere per i gas di scarico.
Il rumore dei vecchi diesel era quello di una sonora e ben riuscita pernacchia, le loro vibrazioni erano ravvisabili anche a qualche chilometro di distanza, come un debole terremoto.
Le prestazioni erano simili a quelle di qualche calesse di inizio Novecento, con una prontezza del motore nel salire di giri simile a quella di uno zombie imbottito di valium.
La caratteristica più inquietante dei dieselsauri era però la messa in moto. Per far arrivare il propulsore alla corretta temperatura d’esercizio ci voleva una buona mezz’ora, motivo per cui lo spegnimento del motore era vissuto come una piccola tragedia. C’era gente che scendeva in pigiama per mettere in moto, poi risaliva a casa, faceva colazione, si preparava, dava un bacio a moglie e figli, e scendeva con la speranza che la macchina si fosse scaldata.
Non parliamo della fermata per un caffè al bar o per comprare il giornale: l’auto veniva lasciata inderogabilmente in moto, magari in doppia fila, col freno a mano tirato, il cambio in folle e lo sportello accostato: mancava solo un tappeto rosso per l’aspirante ladro. La verità: un guaio del genere non se lo sarebbe accollato manco l’ultimo dei topi d’auto.
Insomma, Virgilio insisteva ogni volta per farci da guida nell’inferno popolato da dieselsauri. Mio padre e io, un po’ per farlo contento, un po’ per curiosità, salivamo a bordo del bolide di turno e ci facevamo il segno della croce.
Una volta il fanatico ci trascinò a provare una Renault Diciotto Turbodiesel, un vero prodigio del tempo, nonché un indubbio cesso a pedali. Lanciato a velocità prossima a quella del suono su una stradina di campagna di Villa Raspa, il nostro Cicerone continuava a magnificare le discutibili doti di quell’ammasso di ferro fumigante, mentre travolgeva insetti, piante e non so più cosa.
“Sce, sce – col suo tipico intercalare da montanaro – questa è la macchina che fa per te!”
Mio padre e io ci scambiavamo uno sguardo d’intesa e giù a ridere: il diesel era proprio contrario alla sua religione.
Ogni tanto passo ancora per Villa Raspa; la zona è diventata incredibilmente trafficata, ma coi diesel di oggi di fumo – per fortuna – ce n’è molto meno.
Nel fabbricato che ospitava la concessionaria Renault ora c’è un Todis.
Una volta nel parcheggio mi è parso di vedere una Renault Diciotto che fumava come un tir, e due uomini che chiacchieravano e ridevano, fumando appoggiati al cofano.
Ho fatto il giro e sono tornato indietro in pochi minuti, ma non c’era più nessuno.
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