L’otto luglio del 2001, sul centrale di Wimbledon, va in scena l’ultimo atto di quella che – con ogni probabilità – è stata l’impresa più epica della storia del tennis. Quel giorno si gioca la finale di Wimbledon, il più importante torneo dell’anno, quello che da solo vale la carriera di un professionista; la partita ha luogo insolitamente di lunedì, a causa della pioggia che ha tartassato il programma dei giorni precedenti. Sul campo si affrontano due giovani uomini, l’australiano Patrick Rafter, di quasi ventotto anni, e il croato Goran Ivanisevic, di trenta.
Sono giovani, in senso assoluto, ma sono due vecchi pirati per uno sport che in quegli anni ha già raggiunto i picchi di violenza e la velocità di oggi, spesso però slegati dalla moderna preparazione atletica; in poche parole, i giocatori raramente arrivano ai trent’anni col fisico intatto, vessato da un gioco che si fa sempre più duro, così come le superfici, e Goran Ivanisevic non fa eccezione.
Pochi sport si prestano alle imprese epiche come il tennis; se Omero fosse vissuto ai nostri tempi, anziché narrare le gesta di guerrieri e semidei si sarebbe probabilmente dedicato allo sport della racchetta.
Questo perché il tennis, come pochi altri sport, mette completamente a nudo non solo la parte tecnica e atletica dei giocatori, ma soprattutto quella psicologica. I due tennisti si affrontano in una moderna arena, scrutati ossessivamente da migliaia di persone – milioni contando la televisione – senza la minima possibilità di un qualsiasi supporto morale.
Ivanisevic e Rafter, sono due dei più potenti tennisti in circolazione; Goran, in particolare, è il giocatore che ha segnato più ace da quando le statistiche tengono conto di questo record, dal 1990. A rendere interessante la sfida ci sono una serie di fattori. Innanzitutto la diversità di stile dei due oppositori; Rafter è l’ultimo esponente del tennis all’australiana, fatto di rapide incursioni a rete – il tipico serve & volley – e fa dell’eleganza in campo e fuori una delle sue caratteristiche maggiori. Quasi un Federer prima di Federer.
Goran Ivanisevic è un giocatore a tutto campo, dal servizio potentissimo e con un gioco da fondocampo solido ma non avulso da improvvisa genialità.
Il punto debole di Goran è invece – da sempre – la testa; Goran è più matto di un cavallo matto. Tanto è elegante e mai sopra le righe Rafter, tanto è incline alla sceneggiata Ivanisevic; sbraita, sfascia racchette, insulta giudici di linea e arbitro, è preda di improvvise crisi mistiche che gli fanno attribuire al volere divino il fatto che non abbia vinto a Wimbledon “almeno cinque o sei volte” – parole sue.
Ma quello che rende la finale di Wimbledon del 2001 la partita più epica della storia del tennis, è il fatto che Ivanisevic sia praticamente un ex giocatore. Con la schiena distrutta da anni di servizi scagliati a oltre 200 chilometri all’ora, un fisico longilineo e poco avvezzo ai duri allenamenti e uno stato psichico sempre più alterato, il croato ha giocato quell’anno pochissime partite – perdendole quasi tutte. Si trova a Wimbledon solo perché gli organizzatori gli hanno concesso una wild card, un invito. La sua classifica, 125 del mondo, non gli avrebbe permesso nemmeno di iscriversi.
L’invito arriva in virtù dei precedenti di Goran nel torneo; sull’erba ha sempre dato il meglio e ha già raggiunto la finale altre tre volte, venendo però sempre sconfitto, due volte da Sampras e una da Agassi. Nella terra dei bookmakers, a inizio torneo Goran è dato vincitore alla bella quota di 150 contro uno.
Fin da subito, però, si capisce che Ivanisevic è tornato quello degli anni d’oro; la schiena ha deciso di lasciarlo tranquillo per un paio di settimane e il ragazzone di Spalato torna a fare quello che sa fare meglio. Colpisce una quantità impressionante di ace, ciondola col suo metro e novantatré da una parte all’altra del campo, con le spalle curve in avanti, la bocca aperta e gli occhi spiritati; l’espressione del ragazzino che sa di averla combinata grossa.
Jonsson, un oscuro svedese, Moya, ex numero uno del mondo ma poco a suo agio sul manto erboso; poi Roddick, il bombardiere Rusedski, il folle russo Safin e in semifinale l’idolo di casa Henman, bellissimo e incompiuto.
Tutti cadono sotto i colpi d’ascia di Goran il terribile. La semifinale, spalmata su tre giorni a causa delle bizze del meteo londinese è un assaggio di leggenda: solo Giove Pluvio aiuta Goran a superare le sue crisi psicologiche e a sconfiggere il volleatore d’Albione Henman.
A quel punto manca solo Rafter, che in una semifinale altrettanto leggendaria – di una bellezza cristallina – ha rispedito in America Agassi. Skunky – lo chiamano così per una vistosa ciocca di capelli bianchi – è un altro reduce malconcio di Wimbledon; ha giocato – perdendo – la finale dell’anno prima e la vittoria sull’erba di Londra è da sempre l’impresa che gli sta più a cuore. Anche Pat ha il fisico martoriato, tanto che a fine anno lascerà il tennis ad appena ventinove anni.
La finale procede da subito sui binari dell’irrazionalità tracciati dallo squilibrio di Goran il pazzo: va avanti di un set giocando alla perfezione, poi si fa riprendere nel secondo e di nuovo così nel terzo e quarto. I punteggi schizofrenici sono una costante nella carriera di Ivanisevic, quanti set vinti senza lasciare un solo gioco all’avversario per poi crollare e perdere alla distanza. Sugli spalti, che per l’occasione sembrano quelli di una partita di calcio, la domanda che serpeggia è una sola: quando cederanno i nervi del croato?
Su un paio di chiamate dubbie, il disastro pare essere alle porte: Goran sbraita, protesta, smoccola buona parte dei santi croati alzando lo sguardo al cielo, mena calci all’erba e colpisce la rete con la racchetta.
Ma poi, miracolosamente, si lascia tutto alle spalle e continua imperterrito a rincorrere Rafter in un quinto set finalmente equilibrato. Cosa accade nella testa di Goran? Cosa fa sì che il croato, da sempre il primo nemico di sé stesso, stavolta sopporti la tensione come il più navigato dei veterani? Probabilmente il ragazzo si è talmente innamorato dell’impresa che vede lì, a portata di racchetta, da convincersi di essere – come direbbero i Blues Brothers – in missione per conto di Dio; e ci crede davvero, Goran, di questo si può stare certi.
Improvvisamente la partita – non troppo tecnica a causa della forte tensione – diventa persino bella. Il pirata australiano continua cocciutamente il suo arrembaggio a rete, mentre Goran seguita a rasoiare il rettangolo di gioco da una parte all’altra. Anziché dipingere la tela del campo, come facevano i tennisti di una volta, i due sembrano squarciarla, novelli avanguardisti dello sport emuli dell’opera di Fontana.
Alla fine, sul 7-7, Goran inanella i colpi della vita e strappa il servizio all’avversario. Sull’8-7 a Ivanisevic basta tenere il servizio, e la coppa – tanto agognata – sarà sua.
Considerando quanto sia stato devastante questo colpo per due settimane, pare un gioco da ragazzi: ebbene, l’ultimo game sembra concentrare in pochi minuti una partita a sé, quasi fosse l’emblema di tutta la carriera dei due amici-nemici. Il croato presto s’invola a raggiungere il matchpoint, eppure basta guardarlo in faccia per capire il suo forte turbamento: il servizio, il suo colpo migliore, si inceppa e Goran getta due palle del match con altrettanti doppi falli. Siamo alle soglie dello psicodramma.
Ivanisevic pare sempre più fuori di sé, lo sguardo spiritato fisso a terra e il viso che si tuffa nell’asciugamano, quasi sul punto di piangere; al terzo matchpoint, in preda al terrore, piazza il servizio anziché forzare e lo stesso fa sulla successiva voleé, ma stavolta è Rafter a fulminarlo con un pallonetto imprendibile, forse il più bel colpo dell’incontro.
Il destino di Goran sembra segnato, l’erba di Wimbledon è stregata e la crisi di nervi pare in arrivo; ma per una volta gli dei del tennis sono magnanimi: l’impresa è troppo bella per essere guastata e allora Rafter, sul quarto matchpoint, affossa in rete una risposta tutt’altro che impossibile. Ivanisevic può finalmente gettarsi a terra, stravolto, e rialzarsi solo per il cameratesco abbraccio con l’amico Pat.
Goran si abbandona a un pianto dirotto; il pubblico, mai tenero con lui, è stavolta dalla sua parte, come accade al vecchio bandito ferito che tenta l’ultimo romantico colpo brandendo la stampella, solo contro tutti e contro la razionalità.
Nessuno, in più di cent’anni di storia, aveva vinto Wimbledon partendo da una wild card.
Ma Goran il pazzo, l’antipatico per eccellenza è sempre lui, e nella conferenza stampa torna a dar di matto insultando pesantemente i giudici rei di avergli remato contro; fa nulla, per un giorno anche i sobri tifosi inglesi gli concedono l’amnistia. L’impresa che ha compiuto è troppo bella per essere guastata.
La loro più grande giornata sarà però anche l’ultima; a fine stagione Rafter rinuncia al tennis e alla possibilità di vincere Wimbledon.
Ivanisevic continua per un po’, ma la schiena gli presenta un conto salato; chiuderà tre anni dopo, ancora su quel centrale, sconfitto da un altro australiano, quel Hewitt che non ha un grammo della classe di Rafter, ma molta più fame di successi.
Goran oggi appare spesso nell’angolo di Djokovic, un tennista che non potrebbe essere più diverso dal suo gioco fatto di genio e sregolatezza; imbolsito e appesantito dagli anni, rilascia qualche dichiarazione delle sue, ogni tanto, ricordando a tutti perché lo chiamavano cavallo pazzo.
Una prima versione di questo articolo era stata pubblicata su Auralcrave.