La vita di Ronnie Peterson si incrocia più volte con quella di John Watson, ed è proprio l’irlandese che forse ne traccia il più sincero epitaffio: “Ronnie era un pilota al cento per cento, senza grilli per la testa. Probabilmente il più veloce”.
Bengt Ronnie Peterson nasce a Orebro, cittadina della Svezia centrale, il giorno di San Valentino del 1944; la vita è tranquilla in città, scandita dalle tante nevicate, e così è il carattere di Ronnie, tanto posato nella vita quanto furente in pista. Il papà – che si chiama Bengt anche lui – è un panettiere col vizio della velocità.
In gioventù è stato un buon pilota amatoriale, ma le corse – si sa – costano, e allora Bengt si limita a costruire dei kart per i figli. Lo fa in maniera amatoriale, ma quando gli svedesi fanno qualcosa cercano sempre di farlo al meglio. E così, dopo aver sfrecciato per le tranquille vie di Orebro rendendo la cittadina un po’ meno tranquilla e sfidando il fratello Tommy, Ronnie inizia a fare sul serio.
I kart di papà Bengt, come detto, sono artigianali ma di qualità, e Ronnie ha già il piede pesante. Vince di tutto coi kart, poi il padre – con l’aiuto di Sven Andersson, costruisce addirittura una Formula 3, la SveBe; la monoposto è modellata sulla Brabham e permette a Ronnie di sperimentare, nel bene e nel male. Alla prima gara Peterson finisce a testa in giù, tra gli alberi della foresta locale, ma poi i successi prendono a fioccare.
L’italiana Tecno gli mette gli occhi addosso, e lui la ripaga vincendo la gara più importante dell’anno a Montecarlo. La gara nel Principato, corsa a corollario di quella di Formula 1, è la più grande vetrina per i nuovi talenti; Ronnie batte l’altro biondo svedese, Reine Wisell, dopo un’epica battaglia ruota a ruota. Il passaggio alla Formula 2 è praticamente automatico e Peterson vince subito il titolo, nel 1970.
Lo stesso anno SuperSwede – così lo chiamano – debutta anche in Formula 1, con la March. Tra le stradine del Principato di Monaco, dove solo un anno prima aveva trionfato con la Formula 3, Ronnie infila le enormi ruote della massima categoria: è subito settimo. La March però è vecchia e poco competitiva: quelle nuove sono destinate a piloti come Stewart, Cevert e Amon, e così per Ronnie il 1970 è puro apprendistato.
L’anno dopo, però, lo svedese fa subito vedere le sue doti.
La sua guida è spettacolare, sempre di traverso come ha imparato sulle nevi svedesi, ma miracolosamente è spesso anche redditizia; sul giro secco Ronnie ha pochi rivali, sulla lunga distanza lo stile sopra le righe non sempre lo avvantaggia. La meccanica e le gomme sono messe a dura prova dal suo furore agonistico, come accadrà a Villeneuve e a tanti altri piloti di cuore come lui.
Il 1971 è comunque una grande annata; a Montecarlo – una delle sue piste del destino – è secondo dietro a Stewart. Altri tre secondi posti e alla fine dell’anno – alla prima stagione completa – Ronnie Peterson è vice-campione del mondo.
La sua ascesa pare irresistibile, viene pronosticato come campione del futuro nel giro di poco. E invece il 1972 è un anno transitorio; la nuova March non è nulla di speciale e Ronnie ottiene la miseria di un podio – in Germania – e qualche piazzamento. Alla fine è solo nono.
Le sue doti però fanno gola a quello che con Ken Tyrrell, il Boscaiolo, e il Drake Ferrari, è ritenuto il più grande scopritore di talenti della Formula 1: Colin Chapman. Per il 1973 Ronnie avrà un compito difficile: affiancare Emerson Fittipaldi, appena laureatosi campione del mondo, il più giovane di sempre.
L’inizio della stagione è bipolare.
Ronnie fa subito intendere di non essere il gregario di nessuno e di ritenersi il più veloce. La nera Lotus 72 nelle sue mani è pura dinamite: nelle prime sette gare ottiene ben quattro pole position. Emerson Fittipaldi, però, non si fa intimidire, anzi; lui, che il più veloce sul giro non è mai stato, è molto più concreto. Nelle stesse prime sette gare vince tre volte.
Risultato: in campionato Fittipaldi è primo con 41 punti, Ronnie raccoglie la miseria di dieci punti. In Francia Peterson riesce finalmente a vincere per la prima volta, forse proprio quando lo merita meno; il suo trionfo è infatti propiziato da una collisione tra Jody Scheckter e proprio Fittipaldi. Fatto sta che il ghiaccio è rotto; lo stesso ghiaccio che – inspiegabilmente – viene a crearsi tra Emerson e Chapman da quella gara.
Chapman è uomo di genio, capace di grandi slanci come di assurde prese di posizione. Fittipaldi traccheggia sul rinnovo, voci lo danno alla McLaren; Peterson è oggetto invece dell’infatuazione di Colin, che vede in lui i prodromi del nuovo Clark. Il risultato è che da allora la Lotus di Peterson non si rompe più, mentre quella del brasiliano inizia a patire un guaio dopo l’altro. Ronnie vince a Zeltweg, a Monza e a Watkins Glen. Alla fine dell’anno è terzo con 52 punti, tre in meno del compagno di squadra.
A gioire dell’assurda faida in casa Lotus è Stewart, che vince a mani basse; alla Lotus del bizzoso Chapman va il Campionato Costruttori, a dimostrazione di come la Lotus 72 fosse la monoposto migliore del lotto. Per Peterson però le cose paiono mettersi bene; Fittipaldi cambia aria e per l’anno successivo Ronnie è il favorito numero uno.
E invece, per l’ennesima volta, qualcosa si mette tra Peterson e la meritata gloria. La nuova 76 non va, si torna a correre con la vecchia perdendo mezza stagione.
Ronnie si conferma forse il più veloce del lotto, vince tre gare e ridimensiona Jacky Ickx, suo compagno di squadra per quell’anno. Il titolo rimane però fuori portata e va – paradossalmente – proprio a Fittipaldi, riparato alla McLaren; a Ronnie la soddisfazione di altre tre vittorie, ma in classifica è solo quinto.
È allora che inizia – proprio nel mezzo della sua maturità – il calvario del pilota svedese. Anni buttati tra i capricci della Lotus prima dell’ultimo colpo di genio di Chapman, l’invenzione dell’effetto suolo, la March e la Tyrrell a sei ruote. Unico acuto, la vittoria a Monza nel 1976, con una March che non è certo un fulmine di guerra. Quando Lauda quasi si uccide nel rogo del Nurburgring, il Drake in persona vorrebbe Ronnie al suo posto. Lauda, che lo teme sopra ogni cosa, fa carte false per impedire il suo arrivo a Maranello, rientrando con le piaghe sanguinanti pur di scongiurare l’accordo.
L’affaire Ferrari rimane una delle pagine più amare della carriera di Peterson, ma anche della parabola di Niki Lauda. Ronnie nel 1978 ha ormai 34 anni e viene da una serie di stagioni deludenti; con la Tyrrell a sei ruote ha passato una stagione sempre di traverso, a combattere con la bizzosità dell’auto e a inseguire Depailler, il compagno di colori, quasi sempre più veloce. Per molti è finito, e tanti si meravigliano del suo ritorno alla Lotus al posto di un altro svedese, Gunnar Nilsson.
E invece è l’inizio di un rutilante colpo di coda, la possibilità di un imprevisto lieto fine che lo svedese meriterebbe più di tanti altri. La vita però è molto diversa dalla trama del migliore degli sceneggiatori, e il 1978 sarà l’anno della fine per Ronnie Peterson. Le Lotus 78, e poi la 79, dominano il campionato come poche altre volte si vedrà; l’effetto suolo, inventato da Colin Chapman, garantisce un vantaggio incolmabile, almeno per quella stagione.
Il problema è che la Lotus – abbandonata da Peterson anni prima, nella tempesta – si è risollevata soprattutto grazie a Mario Andretti, il pilota che ha creduto nelle idee di Chapman. E che ha messo a punto quel missile che ora fa faville nelle mani di Peterson. Colin riprende Ronnie, come il più classico figliol prodigo, ma impone un prezzo da pagare: Peterson sarà il gregario di Andretti.
E così lo svedese si piega, sperando in un meritato rilancio. Impiega qualche gara per adattarsi allo stile delle nuove wing-car, ma alla terza prova è già sul gradino più alto del podio. In Sudafrica, per di più, Ronnie beffa all’ultimo giro proprio Depailler, con la Tyrrell tornata alle canoniche quattro ruote.
Peterson fa il gregario, anche se tutti capiscono che spesso è più veloce di Piedone Mario; qualche soddisfazione ci scappa solo quando Andretti ha problemi – come in Austria – o con qualche insolenza che fa sobbalzare Chapman. A Brands Hatch, in prova, fanno uscire Andretti con le gomme da tempo e Ronnie con quelle normali. Dopo qualche giro Chapman non crede ai propri occhi: SuperSwede è più veloce di due decimi buoni, in pole position. Quando Ronnie rientra ai box cerca lo sguardo furente di Colin e gli fa il dito medio.
Peterson , tuttavia, non viene meno ai suoi doveri di gregario: per il 1979 ha però già firmato per la McLaren, in cerca dell’ennesimo riscatto.
La monoposto di Woking, almeno per altri due anni, otterrà risultati disastrosi, ma quanto la sua scelta sia sbagliata Ronnie non lo scoprirà mai. Il 10 settembre del 1978, alla partenza del Gran Premio di Monza –altra sua pista feticcio – Ronnie ha un incidente: l’ultimo della sua vita.
La serie di eventi che sta dietro un incidente è sempre un incomprensibile reticolo di coincidenze e di what if, come dicono gli anglosassoni. Per Ronnie le cose iniziano a ingarbugliarsi domenica mattina, quando nel corso del warm-up esce di strada. Peterson non si fa nulla, ma l’auto è inservibile; c’è un’altra 79, ma è il muletto di Andretti e non si può adattare all’altezza dello svedese. Torna allora in ballo la vecchia 78, roba quasi da museo.
Sulla griglia Peterson ha un volto pensieroso: qualcuno ci vorrà vedere un presentimento, ma la verità è che la sua espressione consueta non è mai molto diversa. Altri eventi si mettono però in moto. L’addetto alla partenza dà il via quando non tutte le vetture sono ferme sulla griglia; all’epoca è un fatto normale, ma nondimeno pericolosissimo. A Monza, poi, il rettilineo è una specie di imbuto: le vetture si allargano a ventaglio per poi rientrare in vista della prima curva. Allo start Peterson ha un problema – forse la vecchia 78 non è abbastanza a punto – e viene risucchiato dal gruppone che arriva a gran velocità.
A quel punto si innesca la carambola: Patrese e Scheckter sono finiti ben al di là della linea bianca che delimita la pista; al momento di rientrare il sudafricano non ha problemi, mentre Riccardo si trova di lato Hunt che scarta per evitarlo e dà inizio al caos. Peterson urta le barriere e rimbalza in pista, con la Lotus che esplode in una palla di fuoco.
Mentre sul rettilineo si scatena una scena da Apocalypse Now, una ruota vola e colpisce al capo Vittorio Brambilla e una colonna di fumo nero oscura il cielo brianzolo: pare la fine del mondo. I soccorsi sono tempestivi, per una volta; il più grave sembra proprio Vittorione, il Gorilla di Monza: colpito alla testa, il pilota rimane in coma per un lungo periodo. Peterson è ferito gravemente alle gambe, si parla di carriera compromessa, ma è fuori pericolo.
E invece, mentre Brambilla si riprenderà e tornerà a correre l’anno dopo, per Ronnie arriva l’inaspettato, tragico epilogo. Viene portato al Niguarda di Milano, dove è operato nella notte. I medici cercano di ridurre le numerose fratture, ma qualcosa va storto: c’è un’embolia e Ronnie muore la mattina successiva.
Numerose sono le leggende metropolitane che si diffondono; Barbro, la moglie dello svedese, racconta di una telefonata che la sveglia nella notte: una voce sconosciuta le dice che per colpa dei medici il marito è morto. Forse uno scherzo di pessimo gusto che – alla luce degli eventi successivi – assume l’inquietante valore di una profezia?
Mario Andretti, nel giorno più bello della sua carriera, fresco campione iridato, riparte tranquillo, sapendo che il compagno è fuori pericolo. Racconterà di aver saputo della morte di Ronnie da un casellante dell’autostrada.
Profezie o no, la Formula 1 perde uno dei suoi piloti più amati, un campione dalla vita tranquilla e dallo stile spettacolare. L’incidente al Fuji dell’anno prima, quando viene investito da Villeneuve che decolla uccidendo due spettatori, segna un ideale passaggio di consegne col canadese, sue erede di stile.
Al funerale lo portano in spalla colleghi come Scheckter, Fittipaldi, Lauda, Watson, Lauda e – soprattutto – Nilsson. Gunnar è malato di cancro, è magro e quasi irriconoscibile ma vuole esserci: morirà il mese dopo. George Harrison, il chitarrista dei Beatles innamorato delle corse, gli dedica una canzone, Faster.
Barbro, la moglie bella e triste di Peterson, da cui ha avuto la figlia Nina, non si darà mai pace. Accompagnatasi a John Watson, collega irlandese meno spettacolare ma altrettanto veloce, si toglierà la vita nove anni dopo i fatti di Monza, con un cocktail di barbiturici.
A Orebro la figlia Nina ha aperto un museo, quasi subito chiuso per mancanza di fondi. Va meglio alla statua di Richard Brixel, con Ronnie seduto sopra una Lotus 72 stilizzata. Quando nevica, a Orebro, e attorno è tutto silenzio, pare quasi che Ronnie stia saltando su quel manto bianco; se ci si concentra intensamente pare quasi di sentirli, Ronnie e il fratellino Tommy, venire giù per le vie della città col kart di papà Bengt, ridendo come matti.
Felici.