Ora la foresta si è ripresa la Ostkurve, a Hockenheim. Nel 1980, invece, era ancora la curva più difficile del tracciato tedesco; la curva in cui quel giorno qualcosa si ruppe, sull’Alfa Romeo di Patrick Depailler.
Come per Gilles Villeneuve, un po’ tutti erano preparati al giorno in cui sarebbe successo; troppo spericolato, Depailler, troppo sfrontato nello sfidare la Nera Signora, sempre e comunque. Ma dopo l’ennesimo incidente, in deltaplano l’anno prima, molti si erano convinti che Patrick fosse immortale.
Forse anche lui.
Hockenheim era un circuito poco amato dai piloti dell’epoca, sebbene oggi adorato dai nostalgici di professione; troppo facile, con quelle curve talmente veloci da non essere vere curve. E troppo pericoloso, se qualcosa si rompeva: nel 1968 vi era morto l’asso scozzese Jim Clark.
Patrick Depailler, invece, era nato a Clermont Ferrand, proprio dove sorgeva uno dei circuiti più difficili di quel periodo. Il padre ne avrebbe voluto fare un serio professionista, com’era lui, ma Patrick bruciava, letteralmente smaniava per il rischio. Per la velocità, certo, ma quello che pareva attirarlo di più pareva proprio la possibilità di sfidare il pericolo, sulla sottile lama che separa la vita e la morte.
Era ispirato da Jean Behra, un altro francese spericolato e velocissimo, che non vinse mai nel Mondiale e che perse la vita all’Avus. Un’altra trappola mortale tedesca.
All’inizio lo prese in simpatia Jean-Pierre Beltoise, uno che come lui aveva iniziato con le moto. Nonostante Beltoise fosse il cognato di François Cevert, Depailler divenne il suo protetto. Al prestigioso Volante Shell del ’66, una competizione che mette in palio un ingaggio in Formula 3, Beltoise fa di tutto per farlo vincere.
E invece, a trionfare è Cevert, che precederà Depailler in tutto, anche nella tragica fine. Patrick riesce comunque a costruirsi una buona carriera, finanziato dal padre; l’uomo, all’inizio scettico, si fa prendere dall’entusiasmo dopo aver visto di quale grande talento sia effettivamente dotato Patrick.
Depailler vince nel 1971 il Campionato Francese di Formula 3; l’anno dopo è in Formula 2, ma grazie ai buoni uffici della Elf, debutta anche in Formula 1. Ken Tyrrell gli mette a disposizione la terza vettura proprio a Clermont Ferrand, sulle strade di casa. Le altre due monoposto ufficiali sono affidate a Stewart e – manco a dirlo – a Cevert, che è già una star.
Patrick Depailler corre in casa e a Watkins Glen, con risultati buoni ma non impressionanti. L’anno dopo avviene un fatto ampiamente emblematico del carattere del francese; Tyrrell lo ingaggia per le ultime due gare della stagione. Per il pilota è un trampolino importante, ma non per questo degno di rinunciare ai suoi rischiosi giocattoli.
Dieci giorni prima delle gare, Depailler si rompe una gamba in moto e deve rinunciare.
È così, Patrick: moto, sci, immersioni subacquee, deltaplano. E ancora, venti sigarette al giorno, bella vita, auto veloci e vino rosso. Talmente spericolato che la moglie, con cui sta da ragazzino, divorzia perché non può più sopportare la tensione di saperlo sempre sul filo tra la vita e la morte.
Anche per il 1974 pare non esserci spazio per Patrick, in Formula 1; a quasi trent’anni si prepara all’ennesima stagione nella categoria cadetta. E invece è proprio Cevert – che perde la vita al Glen, nelle qualifiche dell’ultima gara del 1973 – a lasciargli il posto. Depailler corre sia in Formula 2, dove vince il titolo, che in Formula 1.
Al suo primo anno fatica a trovare il ritmo, in una squadra ancora sotto shock; Stewart si è ritirato, Cevert è morto. Depailler e Scheckter sono due giovani speranze che non hanno ancora preso manco mezzo punto.
Eppure, la tragedia di Cevert pare aver immediatamente maturato Jody, che surclassa Patrick e lotta per il titolo fino alla fine. Per Patrick Depailler la soddisfazione della pole position in Svezia, dove arriva secondo.
L’anno dopo la Tyrrell è meno competitiva; l’unica soddisfazione è il podio a Kyalami, alla fine è nono, come l’anno prima. Per il 1976 Tyrrell schiera la rivoluzionaria quanto assurda monoposto P34 a sei ruote. La vicenda è di nuovo simbolica dello stile di Patrick; mentre Scheckter è molto scettico e reputa quell’esperimento una pericolosa perdita di tempo, Depailler ne è entusiasta.
La sei ruote è ancora più facile da mettere di traverso, come piace a Patrick; e poi, lui ama il bizzarro, la sfida, l’azzardo. Così lo ricordava Ken Tyrrell:
“Patrick era molto francese, mai senza una Gauloise, amava il vino rosso. Per molti versi è stato un ragazzino per tutta la vita, sempre desideroso di andare a sciare o andare in moto. E aveva questa convinzione fiduciosa che alla fine sarebbe andato tutto bene. Ha vissuto per il presente.”
Ken Tyrrell
La sei ruote non va nemmeno così male; Depailler è cinque volte secondo e sette sul podio. A fine anno è quarto, il suo miglior risultato. Scheckter per il 1977 scappa da quella che ritiene una trappola infernale, Patrick no; è innamorato di quella monoposto così strana, bizzarra e velleitaria, un po’ com’è lui.
La vittoria, però, continua a sfuggirgli. Almeno fino al 1978.
Pare una maledizione: quel pilota col fisico da fantino e la faccia un po’ così, da film di Truffaut, non riesce a vincere. Nel paddock tutti lo amano per le stesse doti per cui gli pronosticano una fine tragica. In Sud Africa è primo all’ultimo giro, ma la Tyrrell – tornata a quattro ruote – non pesca la benzina. Peterson lo beffa e lui è ancora secondo.
Il 7 maggio arriva finalmente la sua giornata, a Montecarlo. Patrick trionfa e addirittura va in testa al campionato. Per una volta, però, anche gli avversari sono felici. La Tyrrell di quell’anno è però un fuoco di paglia; presto perde colpi e alla fine Patrick sarà solo quinto.
L’anno dopo, con una decisione sofferta ma – per una volta – lungimirante, Patrick Depailler abbandona la grande famiglia della Tyrrell. Ken, talent scout e abile nel gestire l’uomo ancor prima del pilota, è riuscito per anni a tenerlo a bada; i suoi contratti gli vietavano giochi pericolosi, niente moto senza casco, niente deltaplano e sport estremi.
Patrick non sempre ci si attiene, ma dal ’74 al ’78 corre ogni gara e non si fa mai male. Basterà qualche mese con la Ligier perché riprenda una via pericolosa. La squadra francese è, all’inizio del 1979, la più forte su piazza. Il compagno di squadra Jacques Laffite è un buon amico, ma anche il primo rivale. Da subito si capisce che la situazione è esplosiva e gestita forse in modo superficiale.
Mentre Laffite, molto più calmo per temperamento, invita Patrick a lavorare per la squadra, il focoso Depailler cerca sempre e solo di essere il più veloce. Occhiali da sole, sigaretta sempre in bocca, Patrick vola con l’azzurra Ligier ma non brilla per strategia.
A Buenos Aires le Ligier monopolizzano la prima fila della gara d’esordio. Al via Patrick scappa in testa, ma sforza troppo le gomme e alla fine è solo quarto.
In Brasile stesso canovaccio, Jacque primo e Depailler secondo. A Jarama Laffite è ancora in pole, ma Depailler prende la testa subito e vince, dominando dal primo all’ultimo giro. Come l’anno prima, Patrick è primo nel Mondiale.
In Belgio sta di nuovo dominando, ma è proprio la pressione di Laffite a farlo sbagliare. Le due Ligier sono prima e seconda, basterebbe amministrare e sarebbe una nuova doppietta; i due invece tirano alla morte e fanno fuori le gomme. Risultato: Depailler esce di strada e si ritira, Laffite deve rallentare e perde la vittoria.
Ma il peggio deve venire.
Dopo il quinto posto a Montecarlo, Depailler è ancora pienamente in lotta per il Mondiale. In barba al contratto con Ligier, decide di dedicarsi al suo nuovo amore, il deltaplano. Patrick Depailler si schianta contro il fianco di una montagna e si rompe gambe e caviglie. Le ferite sono talmente gravi che all’inizio si teme l’amputazione, poi che il francese possa rimanere paraplegico.
Lo spericolato pilota è disperato: non lo preoccupa tanto la salute, quanto l’eventualità di non poter più correre.
Guy Ligier è furioso: gli sport estremi gli erano vietati per contratto e – prima di sapere se Patrick tornerà a correre – lo licenzia. Tutto giusto, ma per il pilota è la beffa che si aggiunge al danno. Al suo posto arriva Ickx, a fine carriera.
Non è uomo da darsi per finito, però, il buon Patrick Depailler. Il suo unico obiettivo è tornare in Formula 1; si allena come un matto, segue la fisioterapia. Si impegna come sa fare solo chi è preda dell’ossessione. E alla fine ce la fa: firma con l’Alfa Romeo e torna in monoposto quando ancora si deve reggere con le stampelle.
Ogni volta che tocca il piede a terra i dolori lo fanno contorcere; per ficcarsi nell’abitacolo deve fare le acrobazie, ma ce l’ha fatta. Patrick Depailler è tornato.
In tempi in cui le corse sono – per fortuna – molto più sicure, l’atteggiamento del francese è difficile da capire e accettare; allora, tuttavia, la figura del pilota votato al rischio e – perché no? – alla morte, era non solo normale, ma quasi mitizzata.
E lo è ancora, tra certi tifosi che ragionano con la nostalgia di un’epoca d’oro che forse non è mai esistita.
Le gambe, si diceva, non sono ancora tornate a posto, ma il talento è intatto. Molti piloti, dopo un grave incidente, fanno comprensibilmente fatica a ritrovare il ritmo. Patrick, a trentacinque anni e con un corpo che è una mappa del tesoro di fratture e cicatrici, pare più veloce di prima. Le prime gare sono un calvario; tra i dolori e l’Alfa poco performante, Patrick è sempre in fondo. Non importa, assieme a Giacomelli e con le sue capacità di messa a punto, la monoposto migliora sensibilmente.
A Long Beach Patrick è terzo sulla griglia. Tutto il circus lo festeggia, su un circuito cittadino che favorisce le doti del pilota: Patrick Depailler è tornato. In gara è secondo a lungo, poi l’inevitabile calo e una sospensione rotta quando è quarto. L’Alfa Romeo 179 è bella e pesante ma – soprattutto – si rompe quasi sempre.
A Montecarlo è ancora quarto ma si rompe il motore, a Silverstone sesto ma cede una valvola. Dopo le vacanze estive, in cui Patrick pare rinato, l’Alfa prenota il circuito di Hockenheim per fare dei test; si spera di rendere la 179 sempre più competitiva.
Quel 1° agosto c’è una sola monoposto sia per Depailler che per Giacomelli. Prima prova il francese, poi cede il volante a Bruno perché secondo lui qualcosa non funziona a dovere.
Giacomelli fa un paio di giri, guardingo, e rientra, dicendo che per lui è tutto a posto. Patrick butta a terra l’ennesima sigaretta – l’ultima – e si rimette al volante. Passa dopo un primo giro di riscaldamento, poi non passa più.
All’Ostkurve qualcosa ha ceduto e l’Alfa è decollata, polverizzandosi. Patrick Depailler muore poco dopo. Vicino al guard rail dove si è schiantato ci sono dei rotoli di reti protettive; sarebbero state montate alla fine dei test, in vista della gara di dieci giorni dopo. Forse avrebbero potuto salvare la vita del pilota.
Depailler muore così, come tutti – forse lui per primo – si erano sempre aspettati: al volante. Nove giorni dopo avrebbe compiuto trentasei anni.
Interrogato a proposito, James Hunt lo ricordò così:
“Patrick Depailler… beh, non ho dubbi che avesse un desiderio di morte. Un tipo molto simpatico ma ho sempre pensato che fosse matto. Perché? Guarda come ha vissuto la sua vita. Guidare moto senza casco, cose del genere. Depailler sembrava dover trovare il rischio in tutto”