“Seduto lontano dal volante, col sedile fortemente inclinato all’indietro, Stirling Moss guida quasi senza muoversi. È senz’altro uno dei maggiori stilisti del dopoguerra. La precisione della sua guida e l’esattezza della traiettoria della sua macchina sono tali che, pur essendo egli il più veloce di tutti, riesce a limitare il consumo degli pneumatici come nessuno dei suoi avversari.”
Queste parole sono tratte dal numero di Quattroruote del marzo del 1962, in cui il pilota e giornalista francese Paul Frère analizzava lo stile di guida dei tre piloti più forti allora in Formula Uno: Stirling Moss, Jack Brabham e John Surtees. Praticamente all’unanimità tra gli esperti dell’epoca, Moss era ritenuto il pilota più efficace; per molti era addirittura il più forte di tutti i tempi. Eppure Stirling Moss è passato alla storia delle competizioni automobilistiche con un soprannome che riassume la sua forza come pilota e il cruccio di un’intera vita: il Re senza corona. Sì, perché Stirling Moss non riuscì mai a vincere il Campionato del Mondo di Formula Uno.
Questa è la sua storia.
C’è una foto celebre e particolarmente significativa di Stirling Moss; è degli anni ’50 e ritrae l’inglese alla fine di una competizione, con gli occhiali da pilota abbassati sul collo, l’espressione astuta e indecifrabile di chi passava la vita sul filo acuminato del pericolo. Il volto è completamente nero a causa del grasso e dei fumi di scarico; solo la parte attorno agli occhi forma un otto in cui affiora la carnagione delicata tipicamente britannica di Moss.
Le sensazioni che sono evocate da quella vecchia fotografia sono quelle che hanno accompagnato generazioni di appassionati di corse; sono le sensazioni di un mondo che non esiste più.
Il puzzo intenso – o profumo, se volete – dell’olio ricinato usato per i motori da corsa, del grasso sulle mani e sul viso; l’aria che vortica attorno a elmetti che sono poco più che copricapi da cavallerizzi.
Era nato a Londra, Stirling, nel settembre del 1929, l’anno della Grande Depressione americana; e proprio in America il padre aveva ottenuto la sua più grande soddisfazione di pilota di rincalzo, la partecipazione alla 500 miglia di Indianapolis. Ma il profumo dei motori da corsa era di casa dai Moss, tanto che anche Pat, la sorella, fu una capace pilota di rally in un’epoca in cui le donne accedevano ai circuiti solo per reggere i cartelli coi nomi dei corridori.
Stirling iniziò a correre nelle formule minori – fu uno dei primi clienti della Cooper, prima che trionfasse anche in formula uno – mettendo subito in mostra le doti del predestinato. Erano tempi assai diversi da oggi, per l’automobilismo; i piloti erano animali da circuito, pronti a stringere qualsiasi volante gli si fosse parato davanti. Ed ecco così Moss cimentarsi in Formula Uno fin dal 1951, ma anche nei rally centrando nel ’52 un prestigioso secondo posto a Montecarlo.
Il debutto sul severo circuito di Bremgarten, sotto un diluvio spietato, fa capire di che pasta è fatto il giovane londinese; con la modesta HWM-Alta è ottavo al traguardo. Moss corre ovunque e con qualsiasi mezzo, solo in Formula Uno collezionerà 66 gare e sedici vittorie, ancora oggi il record di trionfi senza vincere il Mondiale. Non solo, allora sono diffusissime le gare di Formula Uno non valevoli per il campionato principale, ma altrettanto prestigiose; Moss ne corre 96, vincendone ben ventidue.
Corre per tutte le più grandi case dell’epoca – Mercedes, Maserati, Cooper, Vanwall e Lotus, a cui regala la prima vittoria – ma mai per la Ferrari, almeno nella massima formula; alcuni dicono per un vecchio screzio a inizio carriera, quando il Grande Vecchio lo aveva ingaggiato per correre a Bari. Una volta sul circuito, Mosse scoprì che era stato sostituito dall’italiano Taruffi; altri sostengono che semplicemente mancò l’occasione giusta, e che il 1962 sarebbe stato l’anno dell’accordo, reso impossibile dalla repentina conclusione della carriera di Stirling.
Fatto sta che Enzo Ferrari, per più di una volta, ribadì pubblicamente come ritenesse Moss il nuovo Tazio Nuvolari.
Re senza corona, questo era il soprannome, e Moss fece di tutto per meritarselo: per ben quattro volte, tra il 1955 e il 1958, fu secondo in classifica, e per altre tre – dal ’59 al ’61 – terzo. Fino al ’57 fu il dominio di Fangio a frustrare le sue ambizioni; l’asso argentino era il pilota che Moss stimava di più, il suo Maestro indiscusso: “Fangio ha vinto cinque mondiali, se pure ne vincessi sei, ciò farebbe di me un pilota migliore di lui?” dichiarò una volta con un’onestà intellettuale rara in un ambiente dove tutti erano sempre convinti di essere i più veloci.
L’anno buono doveva essere il ’58, quando Fangio disse basta dopo aver visto morire Luigi Musso, al culmine di un periodo denso di tragedie. Ma quell’anno fu la sorte a mettersi di traverso; una serie di problemi di affidabilità e rocamboleschi errori di comunicazione coi box consegnarono la vittoria a un altro giovane alfiere albionico, Mike Hawthorn; Moss vinse quattro gare, il biondo Mike solo una, eppure alla fine dell’anno fu quest’ultimo a trionfare – e dire subito basta – per un solo punto.
La fama di Moss a quel punto era planetaria; pur essendo in tutto e per tutto un personaggio di quel tempo lontano, Stirling era anche un istrionico precursore; apparizioni televisive, fama di playboy e qualche cameo al cinema, nel ruolo di sé stesso come in Casino Royale, episodio apocrifo della saga di 007. “Chi ti credi di essere, Stirling Moss?” fu la frase tipica con cui i trasgressori dell’alta velocità venivano redarguiti dalla polizia stradale in quegli anni e per tanti ancora; narra la leggenda che una volta capitò – tra l’imbarazzo generale – allo stesso Stirling.
Il suo stile di guida era proverbiale, specie per la posizione distesa al volante, per il modo innovativo di affrontare le curve e per l’economia essenziale dei gesti; una rilassatezza che rendeva difficile credere come Moss rischiasse la vita praticamente ad ogni metro, in un’epoca in cui le Formula Uno erano praticamente bare imbottite di benzina che correvano – su pneumatici strettissimi – a oltre 250 chilometri all’ora, e in cui il pilota indossava caschetti da fantino e tute da operaio; il tutto senza nemmeno le cinture di sicurezza.
“Per raggiungere qualche risultato in questo sport, bisogna essere preparati a sguazzare ai limiti del disastro” dichiara Moss una volta; esattamente quello che fa per mille miglia nel 1955, quando su un’argentea Mercedes, lontano dalla Formula Uno, mette a segno la sua impresa più epica.
Da Roma a Brescia e ritorno, sulle strade di tutti i giorni dell’epoca, tra binari ferroviari e ali di folla, dai pavé cittadini agli impervi valichi degli Appennini; Moss vince la Mille Miglia alla surreale – e imbattuta – media di 157,650 orari. Al suo fianco un giornalista celebre all’epoca, Denis Jenkinson, pallido come un cencio per il terrore, sotto la famosa barba rossa. Pare che Moss guidasse sotto l’effetto di certe pillole magiche consigliate da Fangio, probabilmente anfetamine, cosa non troppo rara all’epoca.
Si dice che continuò a guidare per i giorni successivi senza dormire, riaccompagnando la fidanzata a Colonia, fermandosi a fare colazione a Monaco e a pranzare a Stoccarda.
Tra gli altri suoi record, e a testimonianza dell’incredibile abilità sui circuiti stradali, c’è quello della vittoria in Formula Uno sul circuito più lungo della storia, nel 1957 a Pescara, sulle strade della mitica Coppa Acerbo. “I rettilinei sono quei tratti noiosi che uniscono due curve” – è un altro suo celebre aforisma, eppure a Pescara, oltre a un numero infinito di pieghe, c’era anche il rettilineo più lungo della storia.
La saga di Moss appare agli appassionati infinita, eppure anche per lui arriva il giorno in cui il destino presenta il suo conto, il 23 aprile del 1962 a Goodwood.
“Se non si rompe nulla, non può succedere nulla” – risponde Moss a chi gli chiede come affronti serenamente il rischio, ma quel giorno qualcosa succede. A Goodwood si corre una delle tante gare di Formula Uno non valide per il Mondiale, il lunedì di Pasqua. Moss si schianta con la sua Lotus contro un terrapieno, forse per un guasto; si teme per la sua vita, ma dopo un mese di coma è chiaro che anche stavolta Stirling ce la farà.
Rimane per sei mesi paralizzato parzialmente su un lato del corpo, ma tutti sono sicuri: Moss tornerà a correre e a vincere. E un anno dopo, forse troppo presto per i tempi di recupero, Moss torna effettivamente in pista. Su una Lotus 19 gira su tempi poco più lenti dei soliti; pare un buon risultato, dopo quello che ha passato, ma quando Stirling torna ai box, scende dall’auto e dice basta. Il parallelismo dei suoi occhi non è più perfetto e sa che non potrà più abbordare le curve come sa fare solo lui.
Abbandona senza rimpianti e continua a gravitare attorno al mondo delle corse, come telecronista, pilota occasionale e ai raduni di auto d’epoca.
Moss sa di aver vissuto un’epoca unica delle competizioni, e di avere la fortuna di poter invecchiare raccontandola; una cosa non da poco, per un pilota di quel periodo. La sua personalità e il suo istrionismo sono intatti; nel 1983 gli fanno provare la Brabham Turbo con cui Nelson Piquet ha vinto il Campionato del Mondo. Una belva da oltre mille cavalli di potenza e lui, arzillo 53enne, si presenta col caschetto degli anni ’50. Al giovane meccanico che gli chiede incredulo cosa sia quel bizzarro copricapo, Moss risponde: “Non puoi capire, è come la differenza tra i collant e le autoreggenti”.
Eppure anche Stirling Moss, l’inossidabile vecchietto che a 75 anni si divertiva a rievocare la Mille Miglia facendo ruggire la vecchia Mercedes 300 SLR numero 722 per i tornanti di Radicofani, non è eterno. Il 12 aprile del 2020, il giorno di Pasqua, dopo 90 anni passati a irridere la Nera Signora, Stirling Moss saluta tutti e se ne va.
Senza rimpianti, of course.
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Auralcrave. Lo potete leggere qui.