A Ruthin, Denbingshire, c’è una lapide che ricorda Tom Pryce; è fatta in bronzo, un bassorilievo che oppone i placidi paesaggi del Galles all’aggressiva riproduzione di due Formula Uno. In mezzo c’è lui, Tom Pryce, uno dei più sensazionali talenti dimenticati delle corse d’auto.
Spesso le storie vere non hanno lieto fine, quella di Pryce è una di queste.
Iniziamola dalla fine.
Kyalami, 5 marzo 1977
Siamo al ventitreesimo giro della gara di Formula Uno, valida per il Mondiale del 1977.
Nessuno può saperlo, ma gli spettatori stanno per assistere a uno degli spettacoli più raccapriccianti della storia delle corse. Gli eventi si mettono in moto quando un guasto al condotto della benzina mette fuori causa Renzo Zorzi.
Zorzi guida la Shadow; è un pilota di belle speranze e di qualche successo, ma è arrivato nella squadra di Jackie Oliver e Don Nichols solo perché porta soldi. La Shadow, squadra di ottimo potenziale e scarsi successi, è entrata in crisi dopo l’abbandono dello sponsor Uop. A quel punto, la fine del 1976, si trova costretta a scegliere: può mantenere un solo top driver, l’altro dovrà pagarsi il sedile.
La scelta è tra Tom Pryce, gallese tutto talento e istinto, mago della pioggia, e Jarier, altrettanto forte e primo a portare qualche successo alla squadra. Rimane Pryce.
L’arrivo di Zorzi e dei suoi soldi dà ossigeno alla Shadow; Tom è ottimista, l’anno che inizia pare davvero essere quello buono.
Montecarlo, 1974
Tre anni prima Tom Pryce vive nello stesso fine settimana successo e delusione. Con la Token, una Formula Uno che sta assieme per grazia ricevuta, è riuscito a qualificarsi per il suo debutto nel Mondiale in Belgio, due settimane prima. Un successo non da poco, con quella monoposto: poco importa che la gara sia durata 66 giri, tutti in ultima posizione. Eppure a Montecarlo lo ritengono troppo inesperto e decidono di non farlo correre.
Tony Vlassopulos, manager di un team di Formula Tre, prende la palla al balzo e gli offre un volante per la gara di contorno; senza manco aver provato la monoposto, Pryce rimonta dalla quarta fila e stacca tutti.
Vince per distacco, prendendosi la sua personale rivincita. Finalmente nell’ambiente si accorgono di lui e la Shadow lo ingaggia al volo. Il team americano è ancora scosso per la morte di Peter Revson, prima guida della squadra.
La carriera di Tom Pryce è iniziata nel 1970.
Figlio di un poliziotto e di un’infermiera, il ragazzino che a dieci anni già guidava un furgoncino, sarà sempre appoggiato dalla famiglia. Tom è un ragazzo semplice e di basso profilo; teme addirittura di non ottenere il patentino di corridore perché pensa di non essere abbastanza intelligente per superare i quiz. Guida d’istinto, Tom, sempre di traverso. Se poi piove, Pryce si scatena.
Alla Daily Express Crusaders Series in palio c’è una Formula Ford nuova di zecca; a Silverstone, ultima gara, piove che Dio la manda e tutti vedono Tom fregarsi le mani.
Vince e così può continuare a correre. Come in tutte le storie non mancano cadute e momenti di sconforto; Tom Pryce arriva a vendere la sua auto privata e a farsi sostenere dai genitori, ma alla fine il sogno della Formula Uno si avvera.
Alla Shadow fa vedere subito le sue qualità. Al debutto non è lontano da Jarier, uno che è soprannominato piede di piombo. Al Paul Ricard, Gran Premio di Francia, la sua seconda gara vera, è già terzo in prova e alla prima curva si scontra con James Hunt, rivale di tante battaglie nelle formule minori.
Nelle gare successive si mette in buona luce; non sfigura confrontato a Jarier, che è indiscussa prima guida, e nell’inferno del Ring guadagna pure il suo primo punto. L’anno dopo va ancora meglio e si conquista i galloni di prima guida sul campo. A Montecarlo parte in prima fila ed è a lungo terzo; in Gran Bretagna stacca la pole position e in gara, sotto il suo amato diluvio, esagera e finisce nelle reti mentre è in testa.
Nella Corsa dei Campioni, tradizionale appuntamento non valido per il Mondiale, addirittura vince. È il primo e unico acuto di un pilota gallese in Formula Uno, anche se la gara non ha valenza ufficiale. Quel giorno, a Brands Hatch, oltre alla pioggia cade anche un po’ di neve; sono condizioni inusuali per una gara della massima formula, la sua vittoria è epica.
Al Ring fa di nuovo faville. A pochi giri dalla fine è secondo quando una perdita di benzina gli fa entrare il liquido nell’abitacolo; qualche ustione e i fumi che rischiano di avvelenarlo, ma per Tom il guaio è che deve rallentare. Alla fine è distrutto e solo quarto. In Austria, ancora sotto fulmini e saette, è l’unico a reggere il passo di Brambilla e rimonta fino al terzo posto; potrebbe fare ancora meglio ma interrompono la gara. Poco male, è il suo primo podio.
Conclude il suo primo anno di Formula Uno al decimo posto. Tom Pryce è stimato da tutti nell’ambiente, la sua guida spettacolare ma tutto sommato redditizia gli conquista molti ammiratori. Colin Chapman, genio della Lotus, è tra questi. A inizio anno vorrebbe scambiarlo con Ronnie Peterson, tanto lo stima; sarebbe un affare, la Lotus è in crisi e Tom costa meno del campione svedese, ma alla fine non se ne fa nulla.
Il 1976 dovrebbe essere l’anno dell’affermazione, per Tom e per la Shadow. Le cose, però non vanno per il verso giusto e la vettura è competitiva solo a tratti.
Alla prima gara in Brasile Jarier potrebbe vincere ma scivola sull’olio di Hunt; Pryce, più accorto, è terzo: l’annata pare iniziare benissimo. Purtroppo è un fuoco di paglia; quando la Shadow va forte, si rompe, quando è affidabile è lentissima. Sotto l’ennesimo diluvio, all’ultima gara in Giappone, l’occasione è ghiotta.
Mentre al Fuji si consuma il dramma di Lauda, che si ritira terrorizzato dalla pioggia e perde il Mondiale, Pryce rimonta come una furia. Pare la volta buona, ma quando è secondo si rompe il motore. L’annata si chiude con Tom Pryce all’undicesimo posto, con dieci punti.
Il 1977 inizia in modo promettente. Alla seconda gara, a Interlagos in Brasile, Pryce rimonta fino al secondo posto. La Shadow, diventata bianca con gli sponsor di Zorzi, è finalmente a punto, ma a sette giri dalla fine il motore cede ancora. Peccato, però Pryce non si demotiva; perfino Zorzi, quasi al debutto, è sesto, segno che la macchina c’è.
Siamo tornati all’inizio della nostra storia, a Kyalami, in Sud Africa. Il mercoledì si disputa la prima sessione di prove, sotto una pioggia battente; in quelle condizioni Tom ha pochi rivali, è primo rifilando un secondo a Lauda, sulla Ferrari. Poi la pioggia smette di cadere e lui si ritrova solo quindicesimo.
Quando la gara parte, qualcosa non va da subito; l’auto di Pryce balbetta, lo sorpassano tutti. All’improvviso la Shadow decide di avviarsi e Tom inizia a rimontare. Dopo ventidue giri è tredicesimo: nulla per cui strapparsi i capelli, ma è comunque in scia a Stuck, con la March.
Il ritiro di Renzo Zorzi mette in moto una serie di eventi per cui è difficile non pensare al destino. Un condotto della benzina si rompe e quando l’italiano accosta ai bordi del lunghissimo rettilineo, c’è un principio d’incendio. Due commissari, improvvidamente, attraversano la pista con gli estintori. Nessuno li ha autorizzati, in più calcolano male le distanze: in quel punto le monoposto sfrecciano a 270 all’ora.
Quando Stuck arriva in cima al dosso che domina il rettilineo principale, si trova davanti i due commissari che stanno attraversando la pista; sono due ragazzi di venticinque e diciannove anni, pieni di buona volontà ma privi di competenza. Il primo, Bill, è evitato d’un soffio dal pilota tedesco, che si butta sul lato destro della pista.
Tom Pryce gli è in scia, a pochi metri; quando Stuck devia su un lato, davanti gli si para il secondo commissario, Frederik Frikkie Jansen van Vuuren. Il pilota non può evitarlo in nessun modo. L’impatto è talmente devastante che Frikkie viene fatto a pezzi; il direttore di corsa, per capire di chi sia la salma, dovrà radunare tutti i commissari e andare per esclusione.
Non solo.
Il giovane ha in mano un estintore da diciotto chili, che finisce sul casco di Pryce. A quella velocità è come se gli piombasse addosso un tir: Tom muore sul colpo, orrendamente sfigurato, davanti a tutto il mondo. L’estintore viene proiettato oltre le tribune e ricade in un parcheggio, distruggendo un’auto posteggiata. La Shadow, con alla guida Tom Pryce privo di vita e con l’acceleratore a tavoletta, prosegue in piena velocità fino a travolgere Jacques Laffite. Per fortuna almeno il francese esce illeso dall’impatto.
Zorzi e l’altro commissario assistono attoniti alla scena, paiono non rendersi nemmeno conto mentre cercano di spegnere il principio d’incendio. Come si diceva, è fin troppo facile tirare in ballo il destino; basterebbe spostare di una frazione di secondo un solo evento della lunga catena e un incidente del genere sarebbe impossibile. Tuttavia, la responsabilità c’è, e va ricercata nel deleterio dilettantismo delle corse dell’epoca.
Fino agli anni Settanta, nonostante auto sempre più veloci e dispositivi di sicurezza all’avanguardia per quel tempo, l’organizzazione delle corse era ancora superficiale. Il povero van Vureen pagò con la vita la sua incompetenza, e così troppi altri in quegli anni tragici per l’automobilismo. Oggi molti rimpiangono non solo gli aspetti positivi di quell’epoca, ma anche gli insensati rischi a cui i piloti andavano incontro. Tra il 1970 e l’incidente di Pryce erano morti Courage, Rindt, Cevert, Koinigg, Williamson, Revson, Siffert e Donohue. Un elenco di morti tragiche, ancor più inaccettabili perché quasi tutte evitabili con le dovute misure di sicurezza. Una strage che dovrebbe far riflettere tanti tifosi nostalgici e le loro ridicole istanze.
Finisce così la storia di Tom Pryce, senza vittorie e lieto fine.
Per assurdo, il suo incidente è talmente cruento e scioccante che oggi Pryce è ricordato soprattutto per la sua fine; il suo immenso talento viene rammentato di rado, scomparso anch’esso nel tremendo impatto.
E invece quella di Tom è la storia di un uomo semplice, dal talento innato e forse non sfruttato fino in fondo. Quando il tragico incidente lo strappa alla vita, Pryce ha ventisette anni e una moglie innamorata, Fenella, che lo aspetta.
Il suo sogno di portare il Galles in cima la mondo rimane irrealizzato, ma la sua storia è ancora degna di essere raccontata.