Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Ian Stewart, la storia del sesto dei Rolling Stones

Ian Stewart, la storia del sesto dei Rolling Stones

Il 12 dicembre del 1985, in una clinica di Londra, un uomo siede in sala d’attesa. Non ha una bella cera, da qualche tempo accusa problemi respiratori e un amico l’ha convinto a farsi visitare; a un tratto l’uomo si accascia, lo soccorrono ma non c’è nulla da fare. L’amico che l’ha convinto a farsi vedere è Keith Richards, e lui è Ian Stewart.

Nessuno può saperlo, in quella sala d’attesa, il suo non è un viso noto; eppure, senza Ian Stewart, forse i Rolling Stones non sarebbero esistiti. Era il maggio del 1962 quando Stu – così lo chiamavano – rispose a un annuncio su un giornale. La rivista era Jazz News e l’inserzione era stata pubblicata nientemeno che da Brian Jones.

Brian, prodigioso multistrumentista e giovane dalla vita scapestrata, cercava musicisti per dare vita a un gruppo di blues. Ce n’erano una miriade, all’epoca, era l’alba del British Blues. Cyril Davies, Alexis Korner e John Mayall erano i tre precursori, innamorati della nera Musica del Diavolo; in scia sarebbero arrivati Eric Clapton, gli Stones, Jimmy Page e tanti altri.

Il primo a rispondere è proprio Ian. Suona il piano da quando aveva sei anni, oltre al banjo, ama il jazz e il blues e già si è fatto conoscere per i locali di Londra. Ian Stewart è scozzese, viene da Pittenweem, una cittadina mineraria, e ha già un lavoro fisso, in un’industria chimica. Brian vuole sentirlo suonare; il modo di Stu di intendere il boogie fa perdere la testa a Jones: il posto è suo.

Dopo tante traversie e cambi di formazione arriveranno un chitarrista col ritmo nel sangue e l’inclinazione per le cattive strade, Keith Richards, e il suo amico Mick Jagger, istrionico vocalist. Charlie Watts – proprio dietro insistenza di Stu – e Bill Wyman andranno a completare l’organico. I ragazzi ci sanno fare e – con la guida di Brian Jones – spopolano per i locali di Londra.

Suonano cover blues e il rock’n’roll di Chuck Berry e iniziano ad avere un seguito per tutti locali del paese; ragazzi ma soprattutto ragazze che impazziscono per il loro stile rude e la loro immagine cattiva.

Ian Stewart fa eccezione; lui è un bravo ragazzo, l’unico con un impiego serio e il suo aspetto non è certo quello del bello e dannato. Il suo ufficio alla Imperial Chemical Industries diventa il campo base della band; Ian addirittura compra un furgoncino Volkswagen per gli spostamenti.

Tutto pare filare liscio, almeno fino a quando la traballante guida manageriale di Brian Jones viene sostituita da quella astuta di Andrew Loog Oldham. Il nuovo timoniere ha una chiara idea di mission e vision dell’impresa Rolling Stones; per lui la band deve diventare l’altra faccia della medaglia dei Beatles, che allora spopolano. Rudi, sporchi e cattivi, nella musica e nell’immagine, per prendersi la fetta di mercato lasciata libera dai Fab Four.

La trovata non fa una grinza, ma subito emerge un problema: Ian Stewart è di troppo.

Nessuno sa come siano andate le cose realmente; pare che i ragazzi – Keith in testa – si siano opposti per quanto possibile. Alla fine, però, Oldham la spunta e Stu viene messo fuori dalla band. Troppo pulita e da bravo ragazzo la sua immagine, poco attraente il suo aspetto fisico. E poi un posto in meno in locandina equivale a una fetta in meno in cui dividere la torta.

Ian Stewart, tra la sorpresa generale, non la prende male. Anzi, forse in cuor suo se l’aspettava, vedendo il successo dei suoi compari. La scelta che Oldham gli lascia è chiara: abbandonare la band o rimanere come road manager. In pratica Ian viene buttato giù dal palco per fare l’autista e il facchino dei nascenti Rolling Stones. Con le sue mani d’oro, intrise di boogie, Stu potrebbe trovare posto in altri complessi nel tempo in cui Richards rolla una canna; e proprio questo è il consiglio del buon amico Keith.

Ian invece accetta. Ama quel progetto e non vuole abbandonare gli amici; rimarrà come roadie e continuerà a suonare il piano sia in studio che sul palco, sorta di sesto componente fantasma degli Stones.

L’unico punto dove non cede è squisitamente tecnico: Ian si rifiuta di suonare accordi minori, per lui il boogie e il rock hanno senso solo se suonati in maggiore.

Per vent’anni Ian Stewart è l’uomo nell’ombra dei Rolling Stones; nessuno lo conosce eppure è lui a fare da collante tra i vari componenti. Soffre per la morte di Brian Jones e impara così che con droga e alcol non si scherza; fa lega col successore di Brian, Mick Taylor, che lo ricorda come non interessato allo stile sopra le righe dei sodali. Ron Wood racconta invece il grande aiuto di Stu al momento di entrare in formazione.

Stewart organizza gli spostamenti, sceglie gli hotel bilanciando la passione per la bella vita del gruppo con la sua per il golf; tempera gli eccessi di Mick e Keith, che probabilmente gli devono più di un grazie anche in questo senso. In più continua a suonare.

Con gli Stones suona in Let’s Spend the Night Together, Around and Around, Down the Road Apiece, Honky Tonk Women, Let It Bleed, Brown Sugar, Star Star, It’s Only Rock ‘n Roll e infiniti altri.
Coolabora però anche con altre grandi star, a conferma della sua statura di strumentista; è uno dei rari musicisti a collaborare con i Led Zeppelin, in ben due occasioni. In una addirittura Page e soci gli dedicano il titolo: Boogie with Stu. Ma suona anche con Howlin’ Wolf ed Eric Clapton, con George Thorogood e tanti altri.

Gli anni passano tra palchi, hotel e vita sulla strada. Per colmo d’ironia è proprio lo spericolato Keith, l’uomo degli eccessi, a preoccuparsi per la salute di Stu; è lui a consigliargli una visita specialistica, dopo che Ian accusa problemi respiratori. Stewart, che ha 47 anni ma è ancora il bravo ragazzo di Pittenweem, segue il consiglio. Purtroppo è però troppo tardi.

La morte prematura restituisce almeno in parte quello che la vita gli aveva tolto. Il dolore degli altri Stones è tale che ancora oggi gli recano tributi e omaggi. Suonano un concerto tributo con i Rocket 88 nel febbraio 1986 al 100 Club di Londra e ribadiscono in ogni occasione la sua importanza. Quando, nel 1989, vengono inseriti nella Rock Hall of Fame, pretendono che il nome di Ian Stewart venga inserito accanto ai loro.

Keith Richards ne scrive forse il più bel ricordo, nella sua autobiografia Life del 2010: Ian Stewart. Lavoro per lui ancora oggi. Per me i Rolling Stones sono la sua band. Senza la sua competenza e le sue doti organizzative, senza il balzo che fece lasciandosi alle spalle le proprie origini per sfidare la sorte e suonare con un branco di ragazzini, noi non saremmo andati da nessuna parte.

Il talento di Ian Stewart venne svenduto per un posto in meno sulle locandine e per il suo aspetto da Andrew Loog Oldham. Eppure, il saggio Ian, lo scozzese che pareva uscito da un turno in miniera, trovò comunque il modo di essere felice. Per lui contava più esserci, fare parte di qualcosa di grande che stava accadendo, che non averne il semplice riconoscimento materiale.

A lui importava di continuare a suonare il boogie.
Sempre coi suoi amati accordi maggiori, quelli che mettono allegria.

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