Long Beach, 27 marzo 1983
A Long Beach, sotto il sole della California, si corre l’annuale Gran Premio di Formula 1; è l’ultima volta che quello stesso sole bacia il circus della massima serie, ed è l’ultima occasione per Jean Pierre Jarier, ex golden boy dell’automobilismo francese.
Jean Pierre Jarier ha passato tutta la carriera a inseguire il successo che tutti gli pronosticavano, vedendoselo sempre sfuggire sul cosiddetto filo di lana. Ormai è quasi un ex, Jarier: sovrappeso, con la faccia da guascone da caratterista in qualche film con Lino Ventura, che – si dice nel paddock – gli ha fruttato tante conquiste fuori dalla pista e un po’ meno dentro.
Le ultime stagioni sono state un fallimento pressoché totale, con la neonata Osella, una squadra armata di tanta buona volontà, di una bella monoposto dai colori pastello e poco altro. Il 1982, in particolare, è stato un anno tragico.
Jean Pierre ha portato alla squadra il miglior piazzamento di sempre, quarto a Imola, in una gara disertata dai team inglesi e ricordata più che altro per la lite in pista tra Villeneuve e Pironi, prologo della drammatica morte di Gilles poco dopo a Zolder.
In Canada il giovane compagno di squadra di Jean Pierre, l’italiano Riccardo Paletti, muore in un terribile incidente al via, quando tampona proprio Pironi, rimasto fermo ai blocchi di partenza.
Prima della gara di Monza, Jarier è involontario protagonista dell’investimento di un ragazzo in bicicletta, che perde la vita. Jean Pierre è sconvolto.
Il 1983 lo vede finalmente accasarsi alla Ligier, squadra francese e di successo più volte inseguita e con cui ha corso un paio di gare per sostituire Jabouille nel 1981.
La Ligier di quell’anno è però la pallida ombra di quella che solo due anni prima accarezzava sogni di gloria; il vecchio motore Cosworth nulla può contro quelli turbo di ultima generazione. È la sistemazione d’emergenza per un pilota in cui non crede più nessuno.
La pista di Long Beach, però, ricavata nelle stradine tortuose della città, è da sempre tra le preferite di Jean Pierre – che vi portò a punti l’esordiente ATS nel 1977 – e tra le poche che favoriscono i motori poco potenti ma più gestibili come il Cosworth.
In prova Jarier si piazza decimo e in gara se ne sta tranquillo, mentre là davanti Rosberg dà spettacolo inseguendo la Ferrari di Tambay; il finlandese punta il muso della Williams dentro la Ferrari del francese praticamente a ogni curva. Correndo così, i due non riescono a staccarsi dal gruppo e si forma un trenino.
Jarier fiuta l’occasione e pesta pesante sull’acceleratore: non per niente lo chiamano Godasse de plombe, scarpa di piombo.
Ha ormai trentasette anni, Jarier, e dietro il casco forse ripensa a una carriera sempre rimasta sul punto di essere qualcosa di più, e sempre puntualmente delusa dai fatti.
Come alla fine del 1973, quando Enzo Ferrari si era invaghito del suo faccione da francese sbruffone, coi basettoni e i capelli lunghi, e lo voleva con sé per riformare la squadra, assieme a Clay Regazzoni.
Jarier era fresco campione di Formula 2 e aveva ben figurato quasi al debutto nella massima serie con la March. E proprio il patron della squadra, quel Max Mosley che sarebbe diventato il numero uno della FIA, prima di farsi beccare in un’orgia vestito da nazista, si mise di mezzo, rifiutandosi di rompere il contratto.
Al posto di Jarier sarebbe arrivato Lauda, che nel giro di un paio d’anni diventerà il nuovo fenomeno. Jean Pierre si ritrovò così alla Shadow, gregario di Peter Revson e prima guida dopo la morte a Kyalami dell’americano.
O forse, chissà, Jarier sta pensando a quella volta a Montreal, nel 1978, quando ormai la vittoria era cosa fatta.
Montreal, 8 ottobre 1978
Non piove a Montreal, l’otto ottobre: quasi un miracolo in quel periodo dell’anno in Canada.
In pole position c’è una macchina nera, una Lotus, e non è certo una novità, visto che le auto di Colin Chapman hanno dominato tutta la stagione.
Qualcosa di nuovo, però, c’è: al volante della Lotus numero 55 c’è Jean Pierre Jarier, ingaggiato in fretta e furia per sostituire Ronnie Peterson, tragicamente scomparso all’indomani della gara di Monza. Quel Peterson che a inizio carriera era stato la scomoda pietra di paragone per il meno esperto Godasse de plombe.
A Watkins Glen, una settimana prima, Jarier aveva faticato a prendere confidenza con quell’astronave nera, risultando in prova più lento di Andretti – già campione del mondo – di quasi due secondi. C’era voluta la gara per capire come sfruttare l’effetto suolo e l’immenso potenziale di quell’auto prodigiosa; attardato da un problema tecnico, Jean Pierre si era ritrovato in fondo al gruppo, una situazione non nuova per lui, e si era reso protagonista di una rimonta furibonda, tanto da segnare un tempo in gara che gli sarebbe valso il terzo posto in qualifica, più veloce di un secondo e mezzo del secondo giro più veloce.
Era risalito fino al terzo posto come una furia, e quando iniziava già a pregustare il sapore dello champagne, era finita la benzina. Come sempre, il suo piede di piombo era stato troppo pesante.
Sì, perché Jarier correva così, senza calcoli, spesso di traverso e con foga eccessiva: aspettare non era il suo pane.
Quel giorno a Montreal, però, Jarier era troppo più forte degli altri: pole position e subito in testa, con distacchi da misurare con la clessidra. Troppo forte pure per Andretti.
“O questa Lotus è imbattibile, o Jarier è un fuoriclasse e nessuno se n’era accorto” scrive Franco Lini, e forse un’ipotesi non esclude l’altra.
Per una volta, Jean Pierre Jarier va sul velluto, amministra senza strafare: finalmente oggi è lui a presentare il conto alla dea bendata. Aspetta da tre anni, quando con un’altra Formula Uno nera e bellissima, la Shadow, si era preso la pole nelle prime due gare dell’anno. In Argentina non era nemmeno riuscito a partire, la Shadow era talmente fragile che si era rotta mentre la portava sulla griglia di partenza; in Brasile aveva dominato dall’inizio fino a otto giri dalla fine, poi anche lì qualcosa si era rotto.
A Montecarlo, sotto il diluvio, ancora la foga l’aveva tradito già al primo giro, cercando un’insensata rivalsa contro il leader Lauda, che gli aveva preso il posto in Ferrari, e forse contro il fato.
In Brasile l’anno dopo, stessa storia: una rimonta da astuto stratega, durata tutta la gara e poi, quando Lauda era lì, a portata di mano, lo scivolone su una macchia d’olio lasciata dalla Mclaren di Hunt.
E invece anche stavolta, a Montreal, il diavolo ci mette la coda. Mancano solo venti giri e Jarier guida tranquillo come un tassista, quando il motore inizia a perdere olio: fine dei sogni di gloria e Chapman che gli preferisce l’argentino Reutemann per la stagione successiva.
Perché Jarier è velocissimo, ha il piede di piombo e va di traverso come nessun altro, ma nessuno si fida della sua foga, tranne Ken Tyrrell, che lo ingaggia per il 1979.
Long Beach, 27 marzo 1983
Mike Sullivan, René Arnoux, Eddie Cheever, Riccardo Patrese, Michele Alboreto: uno per uno, Jarier su quella specie di paracarro azzurro che è la Ligier, se li beve tutti.
Ora è quarto, e pare quasi di vederlo, dietro il casco verde e bianco, riaccendersi con quella foga da prime posizioni che non prova più da anni.
Al giro ventisei, in un paio di curve, succede tutto: Rosberg rompe gli indugi e affianca Tambay al tornante, lo spazio non c’è, e in ossequio alle immutabili leggi fisiche, le due auto si toccano.
Il francese vola per aria, Rosberg fa poche curve ma la Williams ha una sospensione rotta. Ora in testa c’è Laffite, francese più fortunato e rivale di Jarier da sempre; Jean Pierre non si fa pregare, con quell’auto che il compagno di squadra fatica a qualificare, vede il primo posto e si getta a capofitto, come al solito.
Anche il risultato è lo stesso, e Jarier finisce fuori, nella polvere: battuto, sconfitto, umiliato per troppa generosità, come in un pessimo copione già scritto.
Quella gara la vincerà Watson, seguito da Lauda, due che erano partiti dalle caselle ventidue e ventitré: in fondo, sarebbe bastato aspettare e Jean Pierre avrebbe vinto a mani basse.
“Se vuoi cambiare il tuo destino, cambia il tuo atteggiamento” dice la scrittrice Amy Tan. Jarier, il suo atteggiamento non lo cambiò mai. Era uno di quei piloti della stirpe bella e dannata di Villeneuve, di Brambilla, di Montoya, di Maldonado e di De Cesaris; quando scoccava la scintilla della lotta, col primo posto alla portata, sembravano quasi accecati dal furore e prima o poi – meglio prima – commettevano qualche errore per la troppa foga. Per questo il pubblico li amava, ma era sempre qualcun altro ad alzare la coppa.
Jarier, come era ancora possibile in quell’epoca, veniva dalle moto, e forse lì aveva sviluppato la sensibilità e il perfetto controllo del mezzo.
Era passato alle auto perché la madre aveva troppa paura, iniziando con la Coppa Gordini, auto di serie che correvano sui circuiti. Nel giro di quattro anni era in Formula Uno, altri tempi.
Il suo mentore era stato – come per Cevert e Depailler – Jean Pierre Beltoise.
Alla fine della carriera, Jarier aveva accumulato tre di tutto: tre pole position, tre giri più veloci e tre podi, sempre terzo, manco a dirlo. La miglior stagione fu nel ’79, con la Tyrrell, e fu anche quella più anonima e corsa con più giudizio.
L’unica casella a rimanere vuota fu quella delle vittorie, ma solo in Formula Uno. Altrove, Jarier vinse di tutto, dal Campionato di Formula Due a quello GT francese, dalla 24 Ore di Spa alle grandi 1000 Km, quelle di Brands Hatch, del Nurburgring e di Spa.
Jarier non ha mai vinto una gara di Formula Uno, ma come pochi ha incarnato gli anni Settanta: gaudente, spericolato e con un approccio romantico alle corse che sarebbe tramontato con la sua generazione.