Nella vita la percezione di un singolo evento può cambiare radicalmente; una porta sbattuta in faccia oggi, può diventare una grande opportunità domani. Eppure, certi vuoti patiti da ragazzi, sono difficili da colmare in seguito. Chiedetelo a Pete Best.
Il giovane Pete capisce da subito che la vita può essere una partita, e che giocare d’azzardo possa dare a volte i suoi vantaggi.
Pete nasce a Madras, in India il 24 novembre del 1941.
Allora l’India è ancora una colonia britannica, tanto che Mona, la madre del ragazzo, è nata a Dehli, pur essendo irlandese purosangue. Il padre di Pete è Donald Peter Scanland, e infatti il nome del ragazzino dovrebbe essere Randolph Peter Scanland; dovrebbe, perché il padre muore durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mona, che è un tipo che non si perde d’animo facilmente, si risposa con Johnny Best, ufficiale e pugile che dà serenità alla donna e l’altisonante cognome al figliastro.
Con il fratello Rory, i quattro si imbarcano per Liverpool alla fine della guerra.
Mona, che ha vissuto sempre in India ed è abituata a uno stile di vita molto diverso, accetta con malanimo di trasferirsi in una piccola casa della città portuale; un giorno impegna i gioielli di famiglia e si gioca tutto su un cavallo chiamato Never Say Die, talmente brocco da essere quotato 33 a 1. Come in un film, il cavallo vince e la donna compra una grande casa vittoriana, ad Hayman’s Green. Nello scantinato, Mona – sempre piena di iniziativa – allestisce il Casbah, un locale con musica dal vivo.
La macchina del destino si è a quel punto messa in moto.
Nello stesso periodo, quattro ragazzetti ribelli di Liverpool, girano suonando per feste paesane facendosi chiamare Quarrymen. Il complesso ha un discreto riscontro e i giovani decidono di fare le cose sul serio.
Fino ad allora, infatti, la band è composta da tre chitarristi e un bassista; il batterista viene avventurosamente scovato di volta in volta. Il beat sta diventando una cosa importante, in quegli anni, e il dilettantismo inizia a lasciare il tempo che trova.
I Quarrymen sono John Lennon, bastian contrario miope che non porta gli occhiali per sembrare Elvis e si muove quasi alla cieca; Paul McCartney, abile polistrumentista con la faccia da bambino; George Harrison, chitarrista ironico e introverso con le orecchie a sventola; Stuart Sutcliff, bassista bello e dannato, d’indole volubile e creativa.
Quando i quattro riescono a strappare un lucroso – per l’epoca – contratto con un locale di Amburgo, si trovano costretti a rimediare un batterista vero. Al Casbah sentono suonare i Blackjacks, band talmente di casa che delle percussioni si occupa Pete, il figlio di Mona.
L’accordo è presto fatto e – nonostante una promettente carriera di studi – Pete Best si lancia nell’avventura.
Ad Amburgo i Quarrymen rimangono due anni; cambiano locali e accompagnano il veterano del rock’n’roll Tony Sheridan. Cambiano anche nome: diventano i Beatles.
Mona, con la sua mano lunga e la sua intraprendenza, fa da manager, pur rimanendo a Liverpool, mentre i ragazzi si legano sempre di più.
A unirli è l’umorismo, la giovanile incoscienza e il Preludin, un’anfetamina di cui abusano e che li aiuta a tenere i ritmi disumani delle serate.
Corpo estraneo nel costituirsi di questa piccola setta è proprio Pete Best.
Il ragazzo è timido e introverso, non ama gli eccessi e le sostanze psicotrope. In più ha un difetto: è molto più bello degli altri, al punto che molte ragazzine vanno ai concerti solo per vedere lui. Addirittura, si pensa di spostare la batteria nella parte più in luce del palco, per sfruttare la situazione, ma Pete mal sopporta di stare al centro dell’attenzione.
Inoltre, tecnicamente i musicisti crescono, facendo un balzo in avanti impressionante, tanto che lo stile ruspante e poco preciso del batterista inizia a far storcere il naso agli altri. Quando finalmente i Beatles tornano a Liverpool, perdono un pezzo per strada: non è Pete Best, sempre sull’orlo del licenziamento, ma Sutcliff.
Stuart si è fidanzato con Astrid Kircherr, una fotografa tedesca; vuole rimanere ad Amburgo, per stare con lei e per darsi alla pittura. Morirà poco dopo, a soli ventuno anni, per un’emorragia cerebrale.
A Liverpool i Beatles fanno un ulteriore salto di qualità. Iniziano a suonare al Cavern e conoscono Brian Epstein, che gli farà da manager al posto di Mona Best.
Brian ha mille agganci e subito procura ai quattro un’audizione con la Decca, il giorno di Capodanno del 1962. La Decca registra una serie di brani, ma – con una delle decisioni più autolesioniste della storia – boccia i Beatles. Ci penserà George Martin, della EMI, a metterli sotto contratto poco dopo.
Sorge però un problema: Pete Best è diventato di troppo.
John, Paul e George – pur ritenendolo ormai parte del gruppo – hanno un atteggiamento quasi bipolare verso Pete; è loro amico, ma come musicista pensano – specie Harrison – che non sia all’altezza; in più, si rifiuta di omologarsi alla divisa e al taglio di capelli alla Beatles.
Alla fine Pete è sempre in bilico: vorrebbero tenerlo ma sanno che la sua presenza rischia di diventare una zavorra.
George Martin non vuole la sua testa, ma per il primo album preferirebbe utilizzare un turnista al suo posto. L’usanza allora è diffusa: sul disco sarebbe rimasto il nome di Pete, in studio avrebbe suonato un batterista più tecnico. Alla fine, l’aspetto del ragazzo è una caratteristica su cui puntare.
Si arriva a una situazione di stallo; pare che tutti vogliano tenere Best per motivi umani o d’opportunità. Alla resa dei conti, però, Pete Best viene licenziato.
La vicenda rimane ancora oggi la macchia più pesante sull’epopea dei Beatles. Lennon dirà sempre che era stata una mossa da vigliacchi; gli altri cercheranno sempre di declinare le proprie responsabilità in modo fumoso.
Fatto sta che al posto di Pete arriva Ringo Starr, batterista più tecnico, pur senza essere certo un fenomeno.
Il giovane Best cade in depressione: prima rifiuta un progetto alternativo con cui Epstein vuole forse alleggerirsi la coscienza, poi si chiude in casa per settimane senza avere contatti col mondo. Alla fine, riprende a suonare e se ne va in America fondando il Pete Best Four; pare quasi una fuga.
Le cose però non vanno.
A Pete la vicenda non va giù: due anni di sacrifici condivisi, lontano da casa e dall’adorata madre, per avere il benservito proprio alla vigilia del successo. La depressione gli fa abbandonare il mondo musicale; al culmine della Beatlemania, Pete tenta il suicidio, salvato da Mona e Rory.
La storia di Pete Best pare condannata al fallimento e a un finale amaro.
Mentre i suoi ex sodali pasteggiano a caviale e champagne in cima al mondo, decidendo le mode musicali e non solo, passando da un incontro con la Regina a uno con Nixon, Pete sbarca il lunario come può. Prima accetta un lavoro di consegne, poi entra nel settore pubblico: impiegato all’ufficio di collocamento.
I Beatles si sciolgono, litigano, si riciclano in mille progetti milionari; Lennon viene ucciso e il mondo si ferma. Pete Best assiste a tutto guardando da dietro il vetro del suo sportello, mentre l’umanità più derelitta di Liverpool lo implora di trovargli un lavoro.
Quando – per qualche biografia – si ricordano di lui e gli chiedono dei pettegolezzi sugli anni coi Fab Four, lui si rifiuta di parlarne.
E invece, a volte, una qualche specie di lieto fine è prevista anche nelle storie dei fallimenti più pesanti. Nel 1995 i tre Beatles rimasti pubblicano il mastodontico Anthology 1. Tra i nastri ripescati ci sono anche quelli delle prime registrazioni con Pete alle pelli. Risultato: un assegno di otto milioni di dollari per i diritti d’autore delle vendite.
Sono soldi che Best si è guadagnato, certo, ma sono anche un risarcimento simbolico.
Paul McCartney – da sempre ambiguo verso Pete – dichiara felice che lui stesso gli ha telefonato per dargli la buona nuova; Best smentisce ma incassa.
E gli torna pure la voglia di rimettersi dietro la sua amata batteria.
Oggi Pete Best gira il mondo con la sua Pete Best Band; ha inciso un album di inediti e la sua Liverpool ha dedicato a lui una strada, la Pete Best Drive e un’altra al locale di Mona, la Casbah Close.
Alla lunga – in the long run, direbbero dalle sue parti – Pete Best si è preso la sua rivincita.
Mentre gli sfortunati John e George sono scomparsi da anni, Ringo veste i panni del pensionato di lusso e Paul si barcamena tra nuovi dischi e alimenti milionari all’ex moglie, Pete continua a fare quello che più gli piace.
Un arzillo ottantenne che pesta duro sui suoi tamburi, senza badare troppo a ritmo e precisione.
E chi se ne frega.