23 aprile 1991, Montecarlo
È una giornata fresca e nuvolosa, a Montecarlo; nonostante l’annuale torneo ATP di tennis sia appena al primo turno, gli spalti sono gremiti, presi d’assalto da un pubblico che travalica quello consueto degli appassionati.
L’occasione è di quelle che capitano raramente.
Sul campo è già arrivato, col borsone a tracolla e quasi inosservato, Jordi Arrese, oscuro terraiolo spagnolo, un ventiseienne di Barcellona che gira il mondo guadagnandosi il pane con la racchetta.
Lo spettacolo che il pubblico è accorso a vedere è dall’altra parte del campo, e pare uscito da una capsula del tempo sigillata sette anni prima. Con la stessa racchetta Donnay di legno, con il minuscolo piatto di 75 pollici quadrati, il completo bianco, la fascia sulla fronte a contenere i nordici capelli biondi, il grande Björn Borg si offre agli sguardi curiosi di tutto il mondo.
Il suo è il ritorno del secolo, almeno per il tennis.
I ritorni, però, spesso non sono una buona idea.
Montecarlo, aprile 1983
Otto anni prima, sempre a Montecarlo, Borg otteneva la sua ultima vittoria, battendo al primo turno José Luis Clerc per 6-1 6-3. Al turno successivo, però, il genio pazzo Henri Leconte poneva fine alla sua corsa, in tre set. All’epoca Borg era praticamente già un ex: svuotato, sfruttato, rivoltato come un calzino vecchio dal mondo del tennis, aveva detto basta alla fine del 1981; aveva appena venticinque anni e la carriera più vincente – almeno per la sua età – della storia del tennis.
L’anno prima aveva giocato un paio di tornei, millantando il grande ritorno per il 1983. La verità era che Borg, ormai, non sapeva più cosa volesse; aveva passato tutta la vita sui campi da tennis e con la racchetta in mano, fin da quando tirava la palla contro la porta del garage di casa, nella fredda Svezia.
Da ragazzino indisciplinato si era trasformato nel primo vero robot del tennis.
Col suo rovescio a due mani, il sangue freddo e il gioco solido da fondocampo aveva rivoluzionato uno sport che era ancora un affare tra gentleman.
Aveva introdotto nell’imbalsamato mondo della racchetta il fenomeno della superstar; quando Borg arrivava a Wimbledon, orde di ragazzine scalpitanti urlavano, strappandosi capelli e lanciando biancheria intima come ai concerti delle rockstar.
Poi Borg si era stufato. Il suo stile era stato mandato a memoria e copiato, tanto da diventare un cliché in uso ancora oggi.
La mazzata finale era stata l’arrivo dell’amico-rivale John McEnroe.
I due diedero vita a un confronto irripetibile: due caratteri e due stili di gioco agli antipodi, quindi perfettamente complementari.
Genio e sregolatezza John, rigore e compostezza Borg. E alla fine McEnroe e lo stress avevano schiantato la sua psiche.
Gli anni dopo il ritiro Borg, che aveva sempre vinto nella sua vita, li passò a fallire in ogni ambito possibile.
Sperperò la fortuna accumulata con la bella vita e con il collasso del gruppo finanziario cui aveva dato vita. Si sposò con la ex di Adriano Panatta, altro grande amico e bestia nera, la cantante Loredana Berté. Un matrimonio a tempo di record che riempì le pagine delle riviste e lasciò tutti e due provati, con un tentativo di suicidio a testa.
Poi, nel 1990, l’annuncio del ritorno, ancora una volta programmato a Montecarlo.
23 aprile 1991, Montecarlo
Borg era sempre stato abituato a dettare legge, sui campi da tennis, e la scelta bislacca di tornare a giocare con la sua vecchia racchetta di legno, in un mondo che aveva conosciuto un’evoluzione tecnica impressionante, dove si serviva già a oltre duecento chilometri all’ora, con attrezzi dai piatti oversize e fatte di materiali compositi, sorprese tutti.
Eppure, da un punto di vista psicologico, la spiegazione era semplice: Borg, evidentemente, non aveva mai smesso di sentirsi il più forte.
Al suo fianco non c’era più il severo coach Lennart Bergellin, mentore e fautore delle vittorie a ripetizione al Roland Garros e a Wimbledon, ma un bizzarro signore di 79 anni, tale Ron Thatcher. Noto come Tia Honsai, costui era guru e maestro nell’arte dello shiatsu, del benessere mentale e di chissà cos’altro.
Ma completamente a digiuno di tennis.
Il Professore, come lo chiama Borg, canuto e corpulento, con un vistoso Panama bianco, si nota nell’ambiente come una mosca su un lenzuolo bianco; assiste alle partite e agli allenamenti addormentandosi in modo preoccupante, salvo animarsi improvvisamente per urlare consigli al suo protetto.
Il ritorno di Borg, sotto gli occhi di tutto il mondo, prima di iniziare si è già trasformato in macchietta: la terribile macchina da guerra Borg-Bergellin si è tramutata in una specie di Armata Brancaleone.
Jordi Arrese dieci anni prima avrebbe passato il pomeriggio a raccogliere la pallina, chiedendosi chi gliel’avesse fatto fare di stare a sudare su un campo anziché nella movida di Barcellona; il 23 aprile del ’91, invece, umilia l’ex campione per 6-2 6-3.
Fine del primo atto e sipario.
1992: la nuova racchetta
Per Borg è una bella doccia fredda e un bagno d’umiltà.
Per tutto il 1991 non si fa più vedere e decide di tornare l’anno dopo, cambiando racchetta e piegandosi allo strapotere della tecnologia.
Nell’ambiente ci si chiede se, con l’attrezzo adeguato, Borg tornerà a fare quello che ha sempre fatto: vincere.
Il 1992 arriva e Borg gioca otto tornei.
Perde con Delaitre, Ferrera e Prpic; poi ancora con Hogstedt, Pridham, Medvedev, Kulti e Roux, senza vincere nemmeno un set.
È una Caporetto, un fallimento senza precedenti.
Ma a Borg non basta. Forse non riesce a ripianare i debiti, forse in cuor suo è ancora convinto che tornerà a vincere.
Forse, dopo una vita passata a vincere, la sua nuova dipendenza è la sconfitta.
Certo è che l’Orso svedese è diventato simpatico a tutti, e tutti si augurano che riesca a portare a casa almeno una vittoria, quasi come se ormai fosse un eroe epico che lotta più contro sé stesso che contro gli avversari.
1993. Epilogo
I ritorni spesso non sono una buona idea, si diceva.
E spesso, più sono grandi e più preludono a un terribile tonfo.
Il 1993 di Borg è fatto di tre partite, e sono di nuovo tre sconfitte.
Fedele alla nomea di robot della sua prima parte di carriera, Borg continua a presentarsi ostinatamente in campo; se fino all’81 era una macchina studiata per vincere, ora pare un obsoleto robot programmato per perdere sempre.
Stavolta i carnefici sono il brasiliano Oncins e il portoghese Cunha-Silva, due racchettari dall’oscuro e solido mestiere; la novità è che Borg perde al terzo set, riuscendo a strappare un set per volta agli avversari.
Lo svedese arriva così a Mosca, il suo canto del cigno, tragico e beffardo come ormai è scritto debba essere. Contro di lui Alexander Volkov, talentuoso mancino padrone di casa.
Borg si impegna allo spasimo, lotta e suda come se si giocasse gli US Open, l’unica macchia della sua carriera, il torneo che non è mai riuscito a vincere.
E invece siamo al primo turno di un torneo minore, una partita combattuta in cui Borg ribatte la palla non solo a Volkov, ma anche alla schiera furiosa dei suoi fantasmi, come nella celebre leggenda medievale.
“Ma al proprio destino nessuno gli sfugge”, cantava De Gregori, e Borg, quando pare sfiorare con le unghie il sogno di quell’unica vittoria, perde al tie-break del terzo set, dilapidando anche un matchpoint, come aveva dilapidato sostanze e carriera.
È l’epilogo, almeno sui campi.
Eppure, da allora, il Borg uomo pare pacificato; sempre sorridente lo si vede spesso sui campi, a dare spettacolo nel circuito senior coi compagni e rivali dei tempi d’oro.
Nel fallimento e nella sconfitta, rincorsi pervicacemente, l’Orso ha trovato il suo equilibrio.
Al terzo tentativo scopre le gioie del matrimonio con Patricia Östfeldt, gira uno spassoso spot con John McEnroe, si rivede sullo schermo come l’eroe del film Borg McEnroe e segue sui campi la nascente carriera del figlio Leo.
Björn Borg ha vissuto male la maledizione di essere il tennista che vinceva sempre, quasi fosse obbligato a farlo anche quando aveva smesso, e ha ucciso i suoi fantasmi solo diventando un perdente altrettanto ostinato.
Il fallimento gli ha regalato una nuova vita, forse più felice.