“𝐈 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐬’𝐚𝐦𝐚𝐧𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐧𝐞𝐬𝐬𝐮𝐧𝐨, 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐨𝐯𝐞, 𝐛𝐞𝐧 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐥𝐨𝐧𝐭𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐧𝐨𝐭𝐭𝐞.”
[𝐉𝐚𝐜𝐪𝐮𝐞𝐬 𝐏𝐫𝐞́𝐯𝐞𝐫𝐭]
Tempo fa mi è capitata sotto gli occhi per caso una bellissima foto di Jean Pierre Beltoise e Jacqueline Cevert, in cui si abbracciano sorridenti.
Mi è venuto in mente mio padre, e i suoi racconti mitologici sui piloti che avevano infiammato la sua gioventù.
Beltoise – ai suoi occhi – aveva macchiato irrimediabilmente la carriera con la terribile tragedia di Buenos Aires del 1971, un incidente causato da una sua sconsiderata manovra che aveva portato alla morte di Ignazio Giunti.
Giunti era la grande promessa delle corse italiane, e le corse – allora – erano un argomento di cui si discuteva al bar al pari del calcio, o quasi.
La foto mi ha rievocato quei momenti, e le atmosfere di quel mondo perduto, come è perduta la gioventù dei sorrisi di Beltoise e Jacqueline.
Quei sorrisi che lo stesso Jean Pierre non ebbe più, dopo la morte di Giunti, pur correndo ancora per anni, con quell’espressione dubbiosa e polemica da Truffaut prestato all’automobilismo.
Eppure Jean Pierre, col volante – e col manubrio ancora prima – ci sapeva fare; non era un fuoriclasse, ma un pilota di sostanza in quel mondo pericoloso e selvaggio delle corse degli anni Sessanta e Settanta.
Corse per la Matra, quando Stewart vinceva il mondiale, non sfigurando – quinto nel ’69 – ma chiarendo bene la differenza tra un fuoriclasse predestinato – Stewart – e un brillante mestierante delle quattro ruote, lui.
Vinse una sola gara, Beltoise, nel 1972 a Montecarlo, nell’inferno di un diluvio irripetibile. Era già al tramonto, il francese, osteggiato per quell’assurda tragedia dell’anno prima, e correva con la BRM, la nobile decaduta della Formula Uno.
Quel giorno, nel muro d’acqua dov’era difficile anche distinguere le ruote della propria auto, una sola cosa contava per vincere: mettersi davanti a tutti e avere la visuale libera.
Beltoise, che partiva quarto, azzeccò la partenza della vita e si mise davanti a tutti, restandoci fino alla fine e vincendo con distacchi da clessidra.
Nel ’73, mentre tutti guardavano Lauda e Regazzoni, giovani compagni di squadra che già avevano ipotecato il futuro, il solido Jean Pierre, con la faccia ironica da francese che fa battute che nessuno capisce, faceva il doppio dei loro punti, senza che nessuno se ne accorgesse.
L’anno dopo Clay e Niki erano alla Ferrari a giocarsi il mondiale, lui a remare in fondo al gruppo, agli sgoccioli della sua parabola.
Alla fine, Beltoise partecipò a 88 Gran Premi, una bella cifra per quei tempi. Vinse solo la gara di Monaco del 1972, andò otto volte sul podio e ottenne quattro giri veloci.
Sarebbe dovuto tornare nel 1976, con la debuttante Ligier, ma Guy gli preferì Laffite.
Il marchio della tragedia se lo portò sempre, Jean Pierre, tanto da dedicare il resto della vita a sensibilizzare i ragazzi sulla guida sicura, aprendo anche un centro dedicato.
La bellissima Jacqueline, qui e fino alla fine al suo fianco, era la sorella di Francois Cevert, Apollo della Formula Uno, predestinato al successo e alla fama in una nazione che lo idolatrava: come tutti gli eroi cari agli Dei, Francoise non sarebbe arrivato a trent’anni, spegnendo il sorriso di sua sorella e della Francia intera.
Quella Francia che vedeva in Francois il predestinato primo campione del mondo francese; i transalpini dovranno aspettare altri dodici anni e Alain Prost.
Jean Pierre Beltoise se n’è andato il 5 gennaio del 2015 a Dakar, dopo due ictus.