Il cinema di genere italiano degli anni ’60 e ’70 è una delle mie grandi passioni e – a volte – anche ispirazioni. L’uccello dalle piume di cristallo è il debutto cinematografico di Dario Argento e dà la stura a decine di pellicole dai titoli bizzarri, invariabilmente con un animale citato in modo più o meno forzato.
Argento – come Truffaut prima e Tarantino poi – è un giovane cresciuto a pane e cinema, sia per coinvolgimenti familiari, sia come critico e sceneggiatore. Chiamato da Bertolucci per dirigere questo film, tratto da La statua che urla, bel romanzo giallo di Fredric Brown, come accade a volte, confeziona all’esordio la sua opera migliore.
Basandosi su una personalissima reinterpretazione della lezione di Hitchcock e delle innovazioni tecniche di Mario Bava, soprattutto nella fotografia, ma prendendo spunto anche dall’Antonioni di Blow Up, il giovane cineasta mette insieme un giallo dove – caso più unico che raro nella sua filmografia – ogni pezzo è nel posto giusto.
Non solo, come a voler mostrare a tutti il suo prorompente talento, si dedica maniacalmente a ogni inquadratura del film.
Ne escono fuori movimenti della macchina da presa che citano grandi registi come Hitchcock, Antonioni, Bava e Pietrangeli, filtrati attraverso la bizzarra personalità dell’autore. Il risultato detta praticamente i contorni di quello che allora è un genere appena nato: violenza splatter che andrà sempre aumentando, colori vividi e saturi, uso spregiudicato dell’espediente narrativo del particolare sfuggente e cliché già tipici di Bava come il serial killer dai guanti in pelle nera.
L’inquadratura in soggettiva rimarrà poi uno dei marchi di fabbrica di Argento. Qui è utilizzato in modo spericolato nella scena dell’uomo che precipita dal balcone, espediente mutuato dalla scena finale di Io la conoscevo bene, capolavoro di Pietrangeli.
I difetti tipici dei film di Dario Argento, ben evidenti anche nei capolavori Profondo rosso e Suspiria, sono qui totalmente assenti. Grazie probabilmente alla derivazione da Brown, la trama non presenta buchi di sceneggiatura e risulta, anche a livello psicologico, abbastanza credibile; la recitazione – vero tallone d’Achille di molti film argentiani – è qui ottima.
Il cast è buono; l’americano Tony Musante nel ruolo principale: pare che Argento e l’attore si odiassero cordialmente. Il mai troppo rimpianto Enrico Maria Salerno dà vita al commissario Morosini.
Il grande Mario Adorf veste i panni iconici del pittore naif e svitato; una serie di presenze femminili non banali e dall’aspetto smaccatamente anni ’70 come Suzy Kendall e Eva Renzi a completare.
Tenendo fede all’estetica cara a Leone, Dario Argento imbastisce un film che è come una partita di calcio fatta di sole azioni da gol.
Perfino i temuti siparietti comici tanto cari ad Argento, quelli che minano anche il ritmo di un best seller come Profondo rosso, sono qui quasi assenti e addirittura azzeccati quando ci sono, come per i personaggi di er Filagna e Addio, simpatiche macchiette, ma funzionali alla trama.
La musica di Morricone, col quale si consumerà di lì a un paio di film un traumatico addio, aggiunge ulteriore valore.
Un’altra caratteristica – per me – fa dei primi film di Argento dei veri cult: le scenografie e ambientazioni, di per sé perfette, aggiunte all’ottimo colpo d’occhio quasi pittorico di Dario Argento, che cita Hopper a più riprese.
Proprio la sua estetica così legata al decennio dell’esordio sarà quella che – inevitabilmente – verrà meno almeno a partire da Tenebre. Da fine anni ’80 in poi, ci sarà il vero tracollo.
Ma ne parleremo prossimamente.