Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Recensione di “Corallo”, il nuovo album di Colombre

Recensione di “Corallo”, il nuovo album di Colombre

“Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l’attrazione dell’abisso.”
(Dino Buzzati – Il Colombre)

Volevo scrivere due righe a proposito di Corallo, il secondo album di Colombre, uscito infelicemente a marzo, proprio alle soglie del primo lockdown.
Me l’ero perso anch’io, non tanto per la quarantena, che rischia di diventare l’alibi per qualsiasi mancanza, ma perché preso in ben più dolorose vicende personali.

Colombre è il moniker – tratto da un bellissimo racconto di Dino Buzzati – di Giovanni Imparato e, proprio cercando qualche informazione al di là delle impressioni personali, ho scoperto che è nato a Senigallia, mia stessa patria per metà e teatro di tanti ricordi da ragazzo, quando ci trascorrevo qualche giorno d’estate tutti gli anni.

Giovanni Imparato, alias Colombre (Foto tratta dalla pagina Facebook)

Il primo lavoro di Giovanni, Pulviscolo del 2017, contiene quello che per me è uno dei pezzi italiani più belli degli ultimi anni, dal titolo non certo accattivante di Blatte. Una canzone di non-amore perfetta, che contiene tutte le migliori intuizioni del pop italiano dagli anni Sessanta in poi, abbinate a un testo feroce e minimalista.

Corallo è un seguito perfettamente all’altezza, all’insegna della sottrazione, della parola scelta con cura e sussurrata, senza mai urlare.

Un lavoro che chiarisce decisamente quella sottile differenza tra semplice e facile: differenza che troppo spesso sfugge nell’arte e nella vita.
L’album si apre con l’epica titletrack, sospesa tra la baldanza di certo beat anni Sessanta e certi ripescaggi vintage dei migliori Baustelle.

“La luce entra dove c’è una crepa” è la citazione di Cohen – in generale abusata ma qui pertinente – che chiarisce anche la nobiltà delle fonti a cui l’ispirazione di Giovanni si abbevera.

Non ti prendo la mano è un’intelligente riflessione sulla fine di una storia, in forma di canzone accattivante e orecchiabile. Una impossibile ma riuscita crasi tra Lucio Battisti, Alan Sorrenti e Tiromancino. Se il mondo fosse un posto più vivibile, alla radio passerebbero questa e non le solite lagne.
Terrore ha un giro di basso-chitarra quasi da funk-disco, con qualche ricordo di Alan Sorrenti ancora sullo sfondo. I riferimenti però sono anche internazionali, da eroi indie come Mac DeMarco o M Ward, a Alex Turner e i Last Shadow Puppets.

Crudele è uno dei pezzi forti del disco: accompagnato da un bordone di chitarra che si muove sulle linee basse, si apre in un ritornello miracoloso, orecchiabile al primo ascolto ma col dono di non stancare.
Gli altri capolavori del disco, piccole gemme purtroppo nascoste per bene agli ascoltatori più sprovveduti, sono sue. L’epica Mille e una notte, perfetto esempio di come il pop nobile della canzone italiana degli anni Sessanta, abbia ancora ragione di esistere.
Ma anche Arcobaleno, bellissima ballata che è un po’ quello che Blatte era nel primo disco, con una semi-citazione di Moby.
Mille e una notte rimane, per chi scrive, il climax del disco, un pezzo delicato e dalla melodia cristallina: perfetto.

A volte le cose ci vengono incontro nel momento giusto: se avessi ascoltato questo disco nel periodo della sua uscita, non l’avrei sicuramente apprezzato a dovere. Ora invece vi dico: se vi volete un po’ di bene, ascoltatelo anche voi.

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